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IL DONO DELL’AQUILA (versione integrale)


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Carlos Castaneda

IL DONO DELL’AQUILA

traduzione di FRANCESCA DRAGONE BANDEL



Biblioteca Universale Rizzoli





SOMMARIO

Prologo 5

PARTE PRIMA Il proprio altro 9

  1. La seconda attenzione 11

  2. Vedere insieme 31

  3. Quasi memorie del proprio altro 51

  4. Oltre i confini dell’affetto 68

  5. Un’orda di stregoni inferociti 89

PARTE SECONDA

L’arte di sognare 111

  1. La perdita della forma umana 113

  2. Sognare insieme 130

  3. La consapevolezza del lato sinistro e del lato destro 153

PARTE TERZA

Il dono dell’Aquila 171

9. La regola del Nagual 173

10. I guerrieri al seguito del Nagual 189

11. La donna Nagual 213

12. I non-fare di Silvio Manuel 231

13. Le complessità del sognare 248

14. Florinda 267

15. Il serpente piumato 298

PARTE QUARTA


PROLOGO

Benché io sia un antropologo, questa non è a rigor di termini, un’opera di antropologia; ciononostante essa ha le sue origini nell’antropologia culturale in quanto ebbe inizio, anni fa, come una ricerca sul campo nell’ambito di questa disciplina. A quell’epoca m’interessava lo studio dell’uso delle piante medicinali fra gli indios del Messico del sudovest e del nord.

Con gli anni la mia ricerca mutò direzione per effetto sia del suo stesso impulso sia della mia evoluzione personale. Lo studio delle piante fu sostituito da quello di un sistema di credenze che mi sembrava facesse da ponte fra almeno due culture diverse.

Il responsabile di questo cambiamento d’interessi fu un indio yaqui del Messico settentrionale, don Juan Matus, che più tardi mi presentò a don Genaro Flores, un indio mazateco del Messico centrale. Entrambi esercitavano un’arte ancestrale, nota ai nostri giorni come stregoneria, che si ritiene sia una forma primitiva di scienza medica e psicologica ma che di fatto è una tradizione di praticanti estremamente autodisciplinati e di pratiche estremamente raffinate.

I due uomini diventarono per me maestri più che informatori, ma io continuavo, procedendo a tentoni, a considerare il mio un compito da antropologo; passai anni a cercare di ricostruire la matrice culturale di questo sistema, perfezionando una tassonomia, uno schema di classificazioni, una ipotesi sulla sua origine e sulla sua espansione. Furono tutti sforzi inutili, poiché alla fine le pressanti forze immanenti in questo sistema sviarono i miei sforzi intellettuali e mi costrinsero a diventare un adepto.





Sotto l’influenza di queste due potenti personalità il mio lavoro si è trasformato in una autobiografia, nel senso che, dal momento in cui si è operato questo cambiamento, mi sono sentito spinto a riferire tutto quanto mi stava accadendo. È una autobiografia particolare, poiché in essa non descrivo né i fatti giornalieri della mia esistenza di uomo comune, ne gli stati soggettivi generati da questo vivere giorno per giorno. Descrivo piuttosto gli eventi che si snodano nella mia vita come risultato dell’adozione di un insieme concatenato di idee e di pratiche aliene. In altre parole, il sistema di credenze che volevo studiare mi ha fagocitato, e per poter continuare la mia ricerca devo pagare ogni giorno un prezzo straordinario, la mia vita di uomo di questo mondo.

Per tali ragioni devo affrontare il difficile problema di spiegare qual è ora la mia attività. Mi sono molto allontanato dalle mie radici di uomo comune occidentale e di antropologo, e devo prima di tutto ripetere che questo non è un racconto di fantasia. Quello che sto per descrivere è un mondo estraneo al nostro; sembra quindi irreale.

Addentrandomi sempre di più nei meandri della stregoneria, quello che inizialmente sembrava un sistema di credenze e di pratiche primitive, risulta ora un mondo vastissimo e complicato. Per capire questo mondo e per poterlo spiegare agli altri, devo usare me stesso in modo sempre più complesso e raffinato. Qualsiasi cosa mi succeda, non è più qualcosa di prevedibile né assimilabile a ciò che altri antropologi conoscono sui sistemi di credenze degli indios del Messico. Mi trovo quindi in una difficile situazione: tutto quello che posso fare in queste circostanze è raccontare ciò che mi è successo così come mi è successo. Non posso fornire nessuna garanzia della mia buona fede se non riaffermando che non conduco una doppia vita e che mi sono impegnato a seguire i princìpi del sistema di don Juan nella mia esistenza quotidiana.

Dopo che don Juan Matus e don Genaro Flores, i due stregoni indios che mi iniziarono ai loro segreti, furono soddisfatti del sapere che mi avevano infuso, mi salutarono e se ne andarono. Capii che da quel momento era mio compito portare avanti quello che da loro avevo appreso.

Nell’adempimento di questo compito ritornai in Messico e trovai che don Juan e don Genaro avevano altri nove apprendisti stregoni,


cinque donne e quattro uomini. La donna più anziana si chiamava Soledad; veniva poi Maria Elena, soprannominata «la Gorda»; le altre tre, Lydia, Rosa e Josefina, erano più giovani ed erano chiamate «le sorelline». I quattro uomini erano, in ordine d’età, Eligio, Benigno, Nestor e Pablito: gli ultimi tre erano chiamati «i Genaros» poiché erano molto intimi di don Genaro.

Sapevo già che Nestor, Pablito ed Eligio, che non si vedevano più in giro, erano apprendisti, ma ero stato portato a credere che le quattro ragazze fossero sorelle di Pablito e Soledad la loro madre. In quegli anni frequentai poco Soledad e la chiamai sempre «dona Soledad», in segno di rispetto, poiché era la più vicina a don Juan per età. Anche Lydia e Rosa mi erano state presentate, ma la nostra conoscenza era stata troppo breve e casuale per permettermi di capire chi fossero realmente. La Gorda e Josefina le conoscevo solo di nome. Avevo già incontrato Benigno ma ignoravo completamente i suoi rapporti con don Juan e don Genaro.

Per motivi che non riuscivo a capire sembrava che tutte queste persone fossero state in attesa del mio ritorno in Messico. Mi dissero che si aspettavano che io prendessi il posto di don Juan come loro capo, il loro Nagual. Mi informarono che don Juan e don Genaro erano spariti dalla faccia della Terra e altrettanto aveva fatto Eligio. Sia gli uomini sia le donne credevano che nessuno dei tre fosse morto: erano solo passati in un altro mondo, differente dal nostro solito, pur tuttavia non meno reale.

Le donne — specie dona Soledad — si scontrarono violentemente con me fin dal nostro primo incontro. Tuttavia furono lo strumento di una catarsi che si produsse dentro di me. Il contatto con loro provocò una misteriosa effervescenza nella mia vita. Da quando le conobbi il mio modo di pensare e di capire le cose subì un drastico cambiamento. Tutto questo non accadde però a un livello di coscienza: anzi, dopo la mia prima visita, mi trovai più confuso che mai e tuttavia nel mezzo di questo caos scopersi una base molto solida. Nell’impatto del nostro scontro scoprii in me stesso capacità che non avevo mai immaginato di possedere.

La Gorda e le sorelline erano esperte sognatrici; me ne diedero prova spontaneamente e mi mostrarono la loro abilità. Don Juan mi aveva descritto l’arte del sognare come la capacità di utilizzare i





propri sogni ordinari e trasformarli in una consapevolezza controllata in virtù di una speciale forma di attenzione che lui e don Genaro chiamavano la seconda attenzione.

Mi aspettavo che i tre Genaros si mettessero a mostrarmi le loro abilità in un altro capitolo dell’insegnamento di don Juan e don Genaro, l’arte dell’agguato». Mi era stata descritta come un insieme di pratiche e di attitudini che permettevano a una persona di ricavare il massimo beneficio da qualsiasi situazione immaginabile. Ma tutto quello che i Genaros mi dissero sull’agguato non aveva né la forza né la coerenza che mi ero aspettato. Conclusi che o quelle persone non erano affatto esperte in quell’arte o che semplicemente non volevano rivelarmela.

Interruppi la mia indagine perchè si sentissero a loro agio con me, ma tutti, uomini e donne, si erano rasserenati visto che non facevo più domande, certi che mi stessi infine comportando da Nagual. Ciascuno mi chiese guida e consiglio.

Per soddisfarli fui obbligato a iniziare un completo riesame di tutto quello che don Juan e don Genaro mi avevano insegnato, per penetrare ancora più a fondo nell’arte della stregoneria.


PARTE PRIMA IL PROPRIO ALTRO





1

LA SECONDA ATTENZIONE

Era metà pomeriggio quando giunsi all’abitazione della Gorda e delle sorelline. La Gorda era seduta fuori, vicino alla porta, con lo sguardo intento alle montagne lontane. Rimase parecchio sorpresa vedendomi: mi spiegò che era stata totalmente assorta in un ricordo e per un istante era stata sul punto di rammentarsi qualcosa di molto vago che riguardava me.

Quella sera, più tardi, dopo cena, la Gorda, le sorelline, i tre Genaros ed io ci sedemmo sul pavimento della stanza della Gorda. Le donne sedettero vicine l’una all’altra.

Per non so qual ragione, nonostante avessi frequentato ciascuno di loro allo stesso modo, avevo isolato la Gorda come l’unico oggetto di ogni mio interesse. Era come se gli altri per me non esistessero. Immaginai che forse questo dipendesse dal fatto che la Gorda a differenza degli altri mi ricordava don Juan. Da lei emanava una sensazione di serenità, una sensazione che non permeava tanto le sue azioni quanto i miei sentimenti verso di lei.

Volevano sapere cosa avessi fatto: dissi che ero appena stato nella città di Tula, Hidalgo, dove avevo visitato alcune rovine archeologiche. Ero rimasto molto colpito da una fila di quattro statue colossali di pietra, a forma di colonna, chiamate « gli Atlantidi » e situate sulla cima piatta di una piramide.

Ciascuna di queste statue quasi cilindriche, larghe un metro e alte cinque, è composta da quattro pezzi di basalto scolpiti in modo da rappresentare, secondo gli archeologi, guer rieri toltechi in pieno assetto di guerra. A sei metri di distanza dietro ciascuna di queste figure frontali poste sulla cima della piramide, c’è un’altra fila di quattro colonne rettangolari delle stesse dimensioni, anch’esse composte di quattro pezzi di pietra.


Il senso di timore ispirato dall’aspetto di questi Atlantidi era rafforzato da quanto mi aveva detto di loro un amico, accompagnandomi nella visita del posto. Mi aveva raccontato che un custode delle rovine gli aveva confidato di aver sentito camminare gli Atlantidi, di notte, e il terreno tremava sotto i loro passi.

Chiesi ai Genaros di dirmi cosa pensassero di questa storia. Sembrarono intimiditi e si misero a ridacchiare. Mi rivolsi alla Gorda, che sedeva di fianco a me, e le chiesi direttamente la sua opinione.

« Non ho mai visto quelle statue » mi disse. ,~ Non sono mai stata a Tula. La sola idea di andarvi mi spaventa. »

« Perché ti spaventa, Gorda? » le chiesi.

« Mi è capitata una cosa fra le rovine del Monte Alban, nell’Oaxaca » disse. Avevo l’abitudine di gironzolare attorno a quelle rovine anche dopo che il Nagual Juan Matus mi aveva detto di non mettervi più piede. Non so perché, ma quel posto mi piaceva. Ci andavo ogni volta che mi trovavo nell’Oaxaca. Poiché le donne sole sono sempre molestate, di solito mi accompagnava Pablito, che è molto coraggioso. Ma una volta ci andai con Nestor. Lui vide un luccichio per terra: scavammo un poco e trovammo una strana pietra che si adattava al palmo della mia mano. Nella pietra c’era un foro, praticato in forma perfetta. Volevo mettervi il dito, ma Nestor me lo impedì. La pietra era liscia e riscaldava intensamente la mia mano. Non sapevamo cosa farne. Nestor la mise nel cappello e la portammo quasi fosse un animale vivo.

Tutti scoppiarono a ridere. Sembrava che ci fosse qualcosa di divertente sottinteso nel racconto della Gorda.

« Dove la portaste? » chiesi.

« La portammo qui a casa » mi rispose, e queste parole pro- vocarono negli altri incontenibili risate. Tossivano e quasi si strozzavano dal gran ridere.

« E per la Gorda » disse Nestor. « Devi sapere che è una testa dura come pochi. Il Nagual le aveva già detto di non scherzare con le pietre e neppure con le ossa o qualsiasi altra cosa potesse trovare sotto terra, ma lei, di nascosto da lui, se ne andava sempre a raccogliere ogni sorta di porcherie ».





« Quel giorno nell’Oaxaca fu lei a insistere per portar via quella cosa terribile. Ce la portammo sull’autobus. La tenemmo per tutto il viaggio fin qua portandola proprio in questa stanza. »

« Il Nagual e Genaro erano partiti » continuò la Gorda. « Presi coraggio e infilai il dito nel foro; mi accorsi così che la pietra era stata tagliata proprio per essere tenuta nel palmo della mano. Subito potei sentire la sensazione di colui che — chiunque fosse — l’aveva tenuta in mano. Era una pietra dotata di potere. Cambiai d’umore. Ero spaventata. Qualcosa di terrificante cominciò a delinearsi nell’oscurità, un pericolo latente senza forma né colore. Non potevo più star sola. Di notte mi svegliavo urlando e, dopo un paio di giorni, non ero più capace di dormire. Facevano a turno tutti a tenermi com- pagnia, giorno e notte. »

« Quando il Nagual e Genaro tornarono, » disse Nestor « il Nagual mi mandò, con Genaro, a rimettere la pietra nel punto esatto dove era stata sotterrata. Genaro lavorò tre giorni per individuare con esattezza il posto, ma ci riuscì. »

Chiesi: « E dopo, Gorda, cosa ti successe?».

« Il Nagual mi sotterrò » disse. « Per nove giorni me ne rimasi nuda in una bara di terriccio. »

Ci fu un’altra esplosione di riso generale.

« Il Nagual le disse di non uscire » spiegò Nestor. « La povera Gorda dovette pisciare e cacare nella sua bara. Il Nagual la cacciò dentro a una specie di scatolone che aveva costruito con rami e fango. C’era una porticina di lato per il cibo e l’acqua. Il resto era chiuso ermeticamente.

« Ma perché la seppellì? » chiesi. « È l’unico modo di proteggere qualcuno » disse Nestor. Doveva esser messa sotto terra in modo che la terra la risanasse.

Non c’è miglior guaritore della terra; inoltre il Nagual doveva deviare l’influsso della pietra che si era concentrato sulla Gorda. Il terriccio rappresenta uno schermo che non lascia passare nulla né in una direzione né in quella opposta. Il Nagual sapeva che non sarebbe certo stata peggio, a star seppellita nove giorni, anzi le avrebbe solo fatto bene. Come infatti accadde. »

« Gorda, come c si sente a essere seppelliti in quel modo? » chiesi.


« Son quasi impazzita » mi disse. Una mia debolezza. In realtà, se il Nagual non mi avesse cacciata là dentro, sarei morta. Il potere di quella pietra era troppo, per me; era appartenuta a un uomo grande e grosso. Io ero in grado di sentire che aveva avuto le mani grandi il doppio delle mie. La pietra gli era stata cara più della vita, ma alla fine qualcuno lo aveva ucciso. La sua paura mi terrorizzava. Percepivo che qualcuno mi si stava avvicinando per nutrirsi delle mie carni: la stessa sensazione che aveva provato quell’uomo. Uomo di potere, aveva trovato chi, possedendo un potere maggiore, l’aveva sopraffatto.

« Il Nagual disse che, una volta che si viene in possesso di un oggetto del genere, esso porta disgrazia in quanto il suo potere entra in lizza con altri oggetti consimili e il possessore diventa o cacciatore o preda. Il Nagual disse che è nella natura stessa di questi oggetti creare ostilità, poiché quella parte della nostra attenzione che si concentra su di essi e fornisce loro il potere, è una parte molto pericolosa e ostile.

« La Gorda è molto avida » disse Pablito. S’immaginava che, trovando qualcosa che avesse già un grande potere in sé, sarebbe stata a posto in quanto oggi nessuno è interessato a sfidare il potere. »

La Gorda assentì con un movimento del capo.

« Non sapevo che si potessero assumere altre cose, oltre al potere posseduto dagli oggetti continuò. Appena misi il dito nel foro e tenni in palmo la pietra, la mano mi diventò caldissima e il braccio prese a vibrare. Mi sentivo veramente grande e forte. So essere sorniona, così nessuno seppe che tenevo questa pietra in mano. Dopo alcuni giorni iniziò il vero spavento. Potevo sentire che qualcuno stava dietro al padrone della pietra. Provavo il suo terrore. Egli era senza dubbio uno stregone molto potente e chi gli stava dietro non voleva solo ucciderlo ma anche cibarsi delle sue carni. Ero proprio terrorizzata all’idea. Avrei dovuto liberarmi della pietra allora, gettarla via, ma il sentimento che provavo era così nuovo che la tenevo stretta in mano, una vera pazzia. Quando alla fine la buttai via era troppo tardi. Una parte di me era rimasta in trappola. Avevo visioni di uomini che mi venivano addosso, abbigliati con strani paludamenti. Sentivo che mi mordevano, strappandomi le carni delle gambe con affilati coltellini e denti aguzzi. Persi la testa. »

Come spiegò queste visioni don Juan? le chiesi.





Rispose Nestor: « Disse che lei non aveva più difese, e per questo motivo poteva assumersi la fissazione di quell’uomo, la sua seconda attenzione, che era stata riversata nella pietra. Mentre lo stavano uccidendo egli le si era aggrappato per raccogliere tutta la sua concentrazione. Il Nagual disse che il potere dell’uomo gli era uscito dal corpo trasferendosi nella pietra: egli era stato consapevole di quel che faceva, poiché non voleva che i suoi nemici traessero beneficio dal divorargli le carni. Il Nagual disse anche che i suoi uccisori sapevano tutto questo e se lo erano mangiato vivo per impadronirsi di tutto il potere che era rimasto. Dovevano aver sotterrato la pietra per evitare guai. La Gorda e io, come due idioti, l’avevamo trovata e tirata fuori ».

La Gorda scosse la testa tre o quattro volte in segno di assenso. Aveva un’espressione molto seria.

« Il Nagual mi disse che la seconda attenzione è la cosa più forte che ci sia » disse. « Se si concentra in un oggetto, non c’è nulla di più spaventoso. »

« La cosa orribile è che noi ci aggrappiamo alle cose » disse Nestor. « L’uomo che possedeva quella pietra era attaccato alla vita e al potere; ecco perché era terrorizzato al sentirsi mangiar via le carni. Il Nagual disse che se quell’uomo non fosse stato così possessivo e si fosse abbandonato alla morte, quale che ella fosse, non ci sarebbe stata alcuna paura in lui.»

La conversazione languì. Chiesi agli altri se non avevano nulla da dire. Le sorelline mi guardarono di traverso. Benigno si mise a ridere, nascondendo il viso dietro al cappello.

Pablito e io siamo stati alle piramidi di Tula » disse alla fine. « Abbiamo visitato tutte le piramidi che ci sono in Messico. Ci piacciono. »

« Perché le piramidi? » chiesi.

« Non lo so proprio » disse. Forse perché il Nagual Juan Matus ce lo aveva proibito. »

« E tu, Pablito? » chiesi.

« Ci sono andato per imparare » rispose bofonchiando. Poi rise. « Prima abitavo a Tula. Conosco quelle piramidi come le mie tasche. Il Nagual mi disse che anche lui ci aveva abitato. Sapeva tutto sulle piramidi: lui stesso era un tolteco. »


Mi resi conto allora che qualcosa più di una normale curiosità mi aveva spinto a visitare la zona archeologica di Tula. La ragione principale per cui avevo accettato l’invito del mio amico stava nel fatto che, al tempo della mia prima visita alla Gorda e agli altri, mi avevano detto una cosa alla quale don Juan non aveva mai accennato e cioè che egli si considerava culturalmente un discendente dei toltechi. Tula era stato l’antico epicentro dell’impero tolteco.

« Che ne pensi degli Atlantidi che se ne vanno in giro di notte? » chiesi a Pablito.

« Ma certo che girano di notte » mi rispose. «Sono lì da secoli, loro. Nessuno sa chi abbia costruito le piramidi, lo stesso Nagual Juan Matus mi disse che non furono gli spagnoli i primi a scoprirle. Il Nagual diceva che ce ne erano stati altri prima di loro. Solo dio sapeva quanti. »

« Cosa pensi che rappresentino quelle statue di pietra? » chiesi.

« Non sono uomini, ma donne » disse. « Quella piramide è il centro dell’ordine e della stabilità. Quelle figure ne rappresentano i quattro angoli, sono i quattro venti, le quattro direzioni. Sono le fondamenta, le basi della piramide. Devono essere donne, donne virili, se vuoi chiamarle così. Come sai anche tu, noi uomini siamo diversi. Siamo un buon elemento di coesione, un cemento per tenere insieme le cose, ma questo è tutto. Il Nagual Juan Matus diceva che il mistero della piramide sta nella struttura. I quattro angoli sono stati elevati al vertice. La piramide è l’uomo, sostenuto dalle sue guerriere; un maschio che ha innalzato le sue sostenitrici alle posizioni più elevate. Capisci quel che voglio dire? » Dovevo aver mostrato una certa perplessità, perché Pablito si mise a ridere. Era un riso educato.

« No, Pablito, non capisco quel che vuoi dire » dissi. « È che don Juan non mi ha mai detto nulla in proposito. Tutto l’argomento mi risulta completamente nuovo. Per favore, spiegami tutto quello che sai. »

« Gli Atlantidi sono il nagual sono sognatori. Rappresentano l’ordine della seconda attenzione messo in alto; ecco perché sono così terribili e misteriosi. Sono creature di guerra, ma non di distruzione. »

« L’altra fila di colonne, quelle rettangolari, rappresenta l’ordine della prima attenzione, il tonal. Sono cacciatori esperti nell’arte





dell’agguato, ecco perché sono coperti d’iscrizioni. Sono molto pacifici e saggi, al contrario della prima fila. »

Pablito smise di parlare e mi rivolse uno sguardo quasi di sfida, poi si aprì in un sorriso.

Credevo che avrebbe continuato a spiegarmi le sue parole, invece se ne restò silenzioso, come in attesa dei miei commenti. Gli confessai che mi sentivo disorientato e insistei perché continuasse a parlare. Sembrava indeciso, mi guardò per un momento ed emise un profondo sospiro. Aveva appena ricominciato quando le voci degli altri si alzarono in un clamore di protesta.

« Il Nagual l’ha già spiegato a tutti » disse la Gorda con im- pazienza. « Perché glielo fai ripetere un’altra volta? »

Cercai di far capire loro che non avevo proprio nessuna idea di quello che stava dicendo Pablito. Riuscii a convincerlo di continuare la sua spiegazione. Ci fu un’altra ondata di voci confuse, parlavano tutti insieme. A giudicare da come mi squadravano le sorelline, dovevano essere davvero furibonde, specie Lydia.

« Non ci piace parlare di quelle donne » mi disse la Gorda in tono conciliante. « La sola idea delle donne della piramide ci rende tutti nervosi. »

« Ma cosa avete, che c’entrate voi? » chiesi. « Perché vi com- portate in questo modo? »

« Non lo sappiamo rispose la Gorda. « È una sensazione comune, qualcosa che ci mette molto a disagio. Fino a un momento fa, quando hai incominciato a fare domande su quelle donne, stavamo bene. »

L’affermazione della Gorda suonò quasi come un allarme. Si alzarono tutti e avanzarono minacciosamente verso di me, parlando ad alta voce.

Ci misi un bel po’ a calmarli e a farli sedere di nuovo. Le so- relline erano turbate e sembrava che il loro umore influenzasse quello della Corda. I tre uomini sembravano dominarsi meglio. Affrontai Nestor e gli chiesi senza mezzi termini di spiegarmi perché le donne fossero così agitate. Era evidente che, senza volerlo, qualcosa del mio comportamento stava peggiorando la situazione.

« Non riesco davvero a capire cosa sia » disse. « Sono sicuro che nessuno di noi sa cosa gli stia succedendo, a parte il fatto che ci sentiamo tutti depressi e nervosi. »


« È perché stiamo parlando delle piramidi? » gli chiesi.

« Forse » rispose cupamente. « Neanch’io sapevo che quelle fossero statue di donne. »

« Ma certo che lo sapevi, idiota! » lo rimbeccò Lydia.

Nestor sembrò intimidito dalla sua sfuriata. Si ritrasse e mi rivolse un sorriso impacciato.

« Forse lo sapevo » concesse. « Stiamo attraversando un periodo molto strano, nelle nostre esistenze. Nessuno di noi è più sicuro di nulla. Da quando sei arrivato fra noi non ci riconosciamo più. »

Si diffuse un angoscioso stato d’animo. Io insistevo che l’unico modo per uscirne era parlare di quelle misteriose colonne poste sulle piramidi.

Le donne protestarono con veemenza, gli uomini restarono zitti. Ebbi la sensazione che per principio fossero d’accordo con le donne ma che segretamente volessero ritornare sull’argomento, proprio come me.

Chiesi: « Don Juan non vi ha detto null’altro sulle piramidi, Pablito? ».

Era mia intenzione manovrare la conversazione deviando dall’argomento degli Atlantidi ma restandovi vicino.

« Disse che una certa piramide lì a Tula era una guida » rispose Pablito con prontezza.

Dal tono della sua voce dedussi che davvero voleva parlarne. E l’attenzione degli altri apprendisti mi convinse che, sotto sotto, desideravano tutti uno scambio d’opinioni.

« Il Nagual disse che era una guida verso la seconda attenzione, » continuò Pablito « ma fu saccheggiata e tutto venne distrutto. Mi disse che alcune piramidi erano giganteschi esempi di non-fare. Non si trattava di abitazioni ma di posti nei quali i guerrieri potessero sognare ed esercitare la seconda attenzione. Tutto quello che facevano era registrato in figure e disegni che adornavano i muri. »

« In seguito doveva essere sopraggiunta un’altra razza di guerrieri, una razza che non approvava quello che gli stregoni delle piramidi avevano fatto con la seconda attenzione, e che distrusse la piramide e tutto quello che conteneva. »

« Il Nagual credeva che i nuovi guerrieri dovevano essere guerrieri della terza attenzione, proprio come lui, atterriti dalla





malvagità della fissazione della seconda attenzione. Gli stregoni della piramide erano troppo assorti nella loro fissazione per accorgersi di quanto stava succedendo. Quando lo fecero, era troppo tardi. »

Pablito s’era fatto un pubblico. Nella stanza tutti erano affascinati da quanto diceva, me incluso. Capivo le idee che andava esponendo perché don Juan me le aveva già spiegate. Don Juan mi aveva detto che la totalità del nostro essere consiste di due segmenti percettibili. Il primo è il nostro familiare corpo fisico, che possiamo percepire tutti; il secondo è il corpo luminoso, involucro che solo i veggenti riescono a percepire, un involucro che ci dà l’apparenza di gigantesche uova luminose. Mi aveva anche detto che uno dei fini più importanti della stregoneria era quello di giungere all’involucro luminoso; un fine cui si perviene attraverso l’uso raffinato del sogno e attraverso una rigorosa e sistematica applicazione di quello che lui chiamava non- fare. Definiva il non-fare come un’attività non connaturale che interessa la totalità del nostro essere, forzandolo a prendere coscienza del suo segmento luminoso.

Per spiegarmi questi concetti, don Juan mi fece una divisione in tre parti diseguali della nostra coscienza. La più piccola la chiamò «la prima attenzione», e disse che corrispondeva alla coscienza che ogni persona normale ha sviluppato per poter affrontare il mondo di tutti i giorni: essa comprende la consapevolezza del proprio corpo fisico. Un’altra parte, più grande, la chiamò «seconda attenzione», e la descrisse come la consapevolezza di cui abbiamo bisogno per percepire il nostro involucro luminoso e agire come esseri luminosi. Disse che la seconda attenzione resta in secondo piano per tutta la durata della nostra vita a meno che non sia fatta emergere con un esercizio deliberato o per un trauma accidentale, e che comprende la consapevolezza del nostro corpo luminoso. L’ultima parte, la maggiore, la chiamava la «terza attenzione», una coscienza incommensurabile che interessa aspetti indefinibili della consapevolezza del corpo fisico e del corpo luminoso.

Gli chiesi se aveva mai sperimentato la terza attenzione. Mi rispose che vi era giunto vicino e che se mai fosse riuscito a penetrarvi, l’avrei subito saputo perché tutto il suo essere sarebbe diventato quello che lui era veramente, uno scoppio di energia. Aggiunse che il campo di battaglia dei guerrieri era la seconda


attenzione, quasi un terreno per esercitarsi ad arrivare alla terza attenzione. Era uno stato piuttosto difficile da conquistare, ma molto utile una volta raggiunto.

« Le piramidi sono pericolose continuò Pablito. Specie per stregoni indifesi come noi, e, in misura ancora maggiore, per guerrieri senza forma come la Gorda. Il Nagual diceva che non c’era nulla di più pericoloso della malefica fissazione della seconda attenzione. Quando i guerrieri imparano a concentrarsi sul lato debole della seconda atteùzione, nulla può più ostacolarli. Diventano cacciatori d’uomini, vampiri. Anche se non sono più in vita, possono raggiungere la preda attraverso il tempo come fossero comunque presenti, in quel momento; poiché prede noi diventiamo, se entriamo in una di quelle piramidi. Il Nagual le chiamava trappole della seconda attenzione. »

« Cosa ha detto che sarebbe successo, esattamente? » chiese la Gorda.

« Il Nagual disse che forse avremmo potuto sopportare una visita alle piramidi» spiegò Pablito. « Alla seconda saremmo stati presi da una strana depressione. Come un vento gelato che ci avrebbe resi svogliati e stanchi, di una stanchezza che sarebbe diventata presto mala sorte. In men che non si dica saremmo stati tutti affatturati, ci sarebbe potuto accadere di tutto. Infatti il Nagual disse che le nostre continue sfortune dipendevano da questo nostro desiderio di visitare le rovine nonostante le sue raccomandazioni. »

« Eligio, per esempio, non ha mai disobbedito al Nagual. Non sarebbe andato in quei posti neanche morto, lui, e neppure quest’altro Nagual, e tutti e due son sempre stati fortunati, mentre il resto di noi aveva la iettatura, specie la Gorda e io. Non siamo perfino stati morsi dallo stesso cane? E non ci sono forse cadute addosso due volte le stesse travi del tetto, dopo esser marcite?’ »

Questo il Nagual non me l’ha mai spiegato » disse la Gorda. « Ma sì, figurati » insisté Pablito. « Se avessi saputo quanto fosse pericoloso, non avrei mai messo

piede in quel maledetto posto » protestò la Gorda. « Il Nagùal disse le stesse cose a tutti » disse Nestor. « Il

problema è che nessuno di noi ascoltava con attenzione o piuttosto ciascuno lo ascoltava a suo modo e sentiva quel che voleva sentire. »





« Il Nagual disse che la fissazione della seconda attenzione aveva due aspetti. Il primo, il più facile, è quello malvagio. Si presenta quando i sognatori usano il loro sogno per concentrare la seconda attenzione su cose di questo mondo, quali denaro e potere. L’altro aspetto, più difficile da cogliere, si presenta quando il sognatore concentra la seconda attenzione su cose non di questo mondo, come il viaggio nell’ignoto. I guerrieri devono osservare una incessante impeccabilità per cogliere questo aspetto. »

Dissi loro di esser sicuro che don Juan aveva scelto di rivelare certe cose ad alcuni di noi e certe ad altri. Non riuscivo a ricordarmi, per esempio, che don Juan mi avesse mai parlato dell’aspetto malvagio della seconda attenzione. Poi narrai loro cosa mi aveva detto a proposito della fissazione dell’attenzione in generale.

Aveva insistito sul fatto che tutte le rovine archeologiche del Messico, soprattutto le piramidi, erano pericolose per l’uomo moderno. Dipinse le piramidi come espressioni aliene di pensiero e di azione. Disse che ogni oggetto, ogni disegno rappresentava uno sforzo calcolato per registrare aspetti dell’attenzione a noi completamente estranei. Per don Juan non erano solo le rovine di culture passate a contenere in sé elementi di pericolo: qualsiasi cosa fosse stata oggetto di un’attenzione ossessiva aveva un potenziale nocivo.

Una volta ne avevamo discusso a fondo. Era una reazione che lui aveva avuto ad alcuni miei commenti sull’impossibilità di trovare un posto dove tenere al sicuro le mie annotazioni. Provavo un gran senso del possesso a questo proposito ed ero addirittura ossessionato all’idea che non fossero al sicuro.

« Cosa dovrei fare? » gli chiesi.

« Genaro ti ha già dato la soluzione una volta rispose. Come sempre, tu pensavi che scherzasse. Non scherza mai, lui. Ti aveva detto che avresti dovuto scrivere Con la punta di un dito invece che con la matita. Tu non gli hai dato retta, perché non riesci a immaginare come questo corrisponda al non-fare del prendere appunti. »

Ribattei che quanto mi aveva proposto doveva per forza essere uno scherzo. L’immagine che avevo di me era quella di uno studioso di antropologia che doveva registrare ogni cosa detta e fatta per trarne delle conclusioni controllabili. Per don Juan una cosa non aveva nulla


a che fare con l’altra. Essere un serio studioso non aveva nulla a che fare con il prendere appunti. Personalmente non riuscivo a vedere una soluzione: il suggerimento di don Genaro mi sembrava spiritoso, ma non certo una effettiva possibilità.

Don Juan andò avanti a discutere su questo punto. Disse che il prendere note era un modo di occupare la prima attenzione nel compito di ricordare, che io prendevo note allo scopo di ricordare i discorsi e le azioni. La raccomandazione di don Genaro non era uno scherzo poiché lo scrivere con la punta d’un dito su un pezzo di carta, equivalente al non-fare del prendere appunti, avrebbe obbligato la mia seconda attenzione a concentrarsi sul ricordare e non avrei accumulato fogli su fogli di carta. Don Juan pensava che alla fine il risultato sarebbe stato più preciso ed efficace che non lo scrivere appunti. Per quanto ne sapeva, nessuno l’aveva mai fatto, ma il principio era valido.

Insistette perché io lo mettessi in pratica per un certo tempo. Mi sentii a disagio. Prendere appunti aveva l’effetto non solo di un artificio mnemonico, ma serviva anche a rilassarmi. Era il mio sostegno più utile. L’accumulare fogli di carta mi dava un senso di equilibrio e di fermezza.

« Quando ti preoccupi di cosa fare dei tuoi fogli » mi spiegò don Juan « concentri su di essi una pericolosissima parte dite stesso. Tutti noi abbiamo quel lato pericoloso, quella fissazione. Più noi diventiamo forti, più quel lato diventa micidiale. La raccomandazione da fare ai guerrieri è di non aver alcun oggetto materiale su cui concentrare il proprio potere, di concentrano invece sullo spirito, sul vero volo verso l’ignoto, non su scudi volgari. Nel tuo caso, gli appunti sono il tuo scudo. Non ti lasceranno vivere in pace. »

Ero fermamente convinto che non ci fosse alcuna cosa al mondo in grado di staccarmi dalle mie annotazioni, così don Juan escogitò un compito da affidarmi al posto di un vero e proprio non-fare. Disse che per una persona possessiva come me, il modo più adatto per liberarmi dai quaderni d’appunti sarebbe stato di renderli di dominio pubblico nivelandoli a tutti, facendone un libro. Al momento pensai che si trattasse di uno scherzo, una presa in giro ancora maggiore di quella che mi consigliava di scrivere con la punta di un dito.





« La tua mania di attaccarti alle cose, di possederle, non è insolita » disse. « Chiunque voglia seguire la strada dei guerrieri, la via degli stregoni, deve liberarsi di questa fissazione. »

« Il mio benefattore mi disse che un tempo i guerrieri avevano oggetti materiali su cui sfogare le loro ossessioni. E questo fece nascere il problema di quale fosse l’oggetto dotato di maggiore potere e a chi appartenesse. Residui di quegli oggetti sono ancora sparsi qua e là nel mondo, miseri resti di quella corsa al potere. Nessuno sa quale tipo di fissazione essi hanno ricevuto. Uomini infinitamente più potenti dite vi riversarono tutte le varietà della loro attenzione. Tu hai a malapena cominciato a riversare le tue meschine preoccupazioni sui tuoi appunti. Non sei ancora arrivato ad altri livelli di attenzione. Pensa quanto sarebbe orribile se ti ritrovassi al termine del tuo cammino di guerriero con sulle spalle ancora il peso di mucchi di appunti. Per quell’epoca dovranno essere vivi, soprattutto se tu impari a scrivere con la punta di un dito e accumuli ancora fogli. In quelle condizioni non sarei affatto sorpreso se qualcuno trovasse i tuoi mucchi di appunti a spasso per strada. »

« Per me è facile capire perché il Nagual Juan Matus non voleva che noi avessimo alcuna proprietà » disse Nestor quando ebbi finito di parlare. « Noi siamo tutti sognatori. Lui non voleva che noi concentrassimo il nostro corpo sognante sull’aspetto più debole della seconda attenzione. »

« A quel tempo non capivo la ragione dei suoi sforzi. Mi offesi perché mi aveva obbligato a sbarazzarmi di tutto quello che possedevo. Pensavo che non fosse giusto. Credevo che cercasse di evitare che Pablito e Benigno mi invidiassero perché loro non avevano nulla. In confronto io ero ricco. Allora non avevo idea che lui stesse proteggendo il mio corpo sognante. »

Don Juan mi aveva descritto il sognare in vari modi. Ora mi pare che il più oscuro di essi sia quello che lo definisce con maggiore efficacia. Egli diceva che il sognare è intrinsecamente il non-fare del sonno. E come tale il sognare permette a coloro che lo praticano l’uso di quella frazione di vita persa dormendo. E come se il sognatore non dorma più e tuttavia non gliene derivi alcun disturbo. I sognatori non risentono della mancanza di sonno, ma l’effetto del sogno sembra un


protrarsi della veglia, grazie all’uso di un presunto secondo corpo, il

corpo sognante. Don Juan mi aveva spiegato che il corpo sognante è talora

chiamato il « doppio » o « l’altro » in quanto è una perfetta replica del corpo del sognatore. E sostanzialmente l’energia di un essere luminoso, una emanazione bianca, spettrale, che viene proiettata dalla fissazione della seconda attenzione in un immagine tridimensionale del corpo. Don Juan mi spiegava che il corpo sognante non è un fantasma ma è reale come qualsiasi altra cosa di questo mondo. Diceva che la seconda attenzione è inevitabilmente attirata a concentrarsi sulla totalità del nostro essere come campo di energia e trasforma tale energia in qualsiasi cosa le serva. L’obiettivo più facile è — logico — l’immagine della parte fisica del corpo, che noi conosciamo già a fondo dalla vita di ogni giorno e dall’uso della prima attenzione. Ciò che incanala l’energia della totalità dell’essere a produrre qualsiasi effetto nei limiti del possibile è noto come volontà. Don Juan non era in grado di precisare quali fossero questi limiti; sapeva solo che al livello dell’essere luminoso il campo era tanto vasto che sarebbe stato futile cercare di stabilirne i limiti — quindi l’energia dell’essere luminoso può essere trasformata dalla volontà in qualsiasi cosa.

« Il Nagual diceva che il corpo sognante s’interessa e s’attacca a tutto » disse Benigno. « Non ha senso. Mi disse che gli uomini sono più deboli delle donne perché il corpo sognante di un uomo è più possessivo. »

Le sorelline furono unanimemente d’accordo con un cenno del capo. La Gorda mi guardò e sorrise.

« Il Nagual mi ha detto che sei il re dei possessivi » mi disse. « Secondo Genaro tu saluti persino i tuoi stronzi prima di tirar giù lo sciacquone. »

Le sorelline si piegavano in due dal gran ridere. I Genaros facevano sforzi evidenti per trattenersi. Nestor, seduto accanto a me, mi diede una pacca sulle ginocchia.

« Il Nagual e Genaro ce ne raccontavano delle belle su di te » disse. « Per anni ci hanno divertito parlandoci di un tipo strano di loro conoscenza. Ora sappiamo che si trattava di te. »





Mi assalì un’ondata d’imbarazzo. Era come se don Juan e don Genaro mi avessero tradito, ridendo di me davanti agli apprendisti. L’imbarazzo fu sostituito dall’autocommiserazione. Cominciai a lamentarmi. Dissi chiaro e tondo che mi erano stati messi contro, perché pensassero che ero pazzo.

« Non è vero » disse Benigno. « Siamo contenti che tu sia con noi. »

« Ah sì? » saltò su Lydia.

Si lanciarono tutti in un’accalorata discussione. Gli uomini non erano d’accordo con le donne. La Gorda non si unì a nessuno dei due gruppi. Se ne restava seduta ai mio fianco, mentre gli altri si erano alzati e vociavano.

« Stiamo attraversando un periodo difficile » mi disse la Gorda a bassa voce. « Abbiamo fatto un gran sognare eppure non è sufficiente per i nostri bisogni. ».

« Quali sono i vostri bisogni, Gorda? » chiesi.

« Non lo sappiamo » disse. Speravamo che ce l’avresti detto tu. » Le sorelline e i Genaros si sedettero di nuovo per ascoltare quello che mi stava dicendo la Gorda.

« Abbiamo bisogno di un capo continuò. « Tu sei il Naguai ma non sei un capo. »

« Ci vuoi tempo per diventare un perfetto Nagual » disse Pablito.

« Il Nagual Juan Matus in persona mi disse che anche lui da giovane era una merda, ma poi accadde qualcosa che lo strappò alle proprie compiacenze. »

« Non ci credo » urlò Lydia. A me non l’ha mai detto. »

« A me disse che era molto scadente » aggiunse la Gorda sottovoce.

« Il Nagual mi disse che in gioventù era un menagramo, proprio come me » disse Pablito. « Il suo benefattore gli aveva ordinato di non mettere piede tra quelle piramidi e proprio per questo lui in pratica ci viveva finché non lo scacciarono un’infinità di fantasmi. »

Evidentemente nessun altro conosceva la storia. Si fecero attenti. « Me ne ero del tutto dimenticato » spiegò Pablito. « M’è venuto in mente solo adesso. Proprio identico a quel che è capitato alla Gorda. Un giorno, dopo che il Nagual era finalmente diventato un guerriero senza forma, le maligne fissazioni di quei guerrieri che avevano


praticato il loro sognare e altri non-fare nelle piramidi si misero sulle sue tracce. Lo trovarono mentre era al lavoro in un campo. Mi disse di aver visto una mano sporgersi dalla terra smossa di un solco appena aperto e afferrargli una gamba dei pantaloni. Pensò che si trattasse di un suo compagno di lavoro, seppellito per errore, e cercò di trarlo fuori. S’accorse però che stava scavando in una bara di terriccio nella quale era sepolto un uomo. Il Nagual diceva che l’uomo era molto magro e scuro e non aveva capelli. Il Nagual, tutto affannato, cercò di rabberciare la bara di terriccio. Non voleva che i suoi compagni di lavoro vedessero e non voleva fare del male all’uomo tirandolo fuori contro la sua volontà. Stava lavorando con tale accanimento che non s’accorse nemmeno che i compagni gli si erano radunati intorno. A quel punto ormai il Nagual disse che la bara s’era disfatta e l’uomo scuro giaceva scompostamente sul fondo, nudo. Il Nagual cercò di aiutarlo a rialzarsi e chiese agli altri uomini di dargli una mano. Quelli gli risero in faccia. Pensarono che fosse ubriaco, che avesse il delirium tremens, perché nel campo non c’era nessun uomo, nessuna bara di terriccio o roba del genere. »

« Il Nagual disse che s’era sentito molto scosso ma non aveva osato raccontare l’accaduto al suo benefattore. Ciò non ebbe molta importanza in quanto la notte un’orda intera di fantasmi lo assalì. Dopo che qualcuno ebbe bussato, lui andò ad aprire la porta e un nugolo di uomini nudi con gialli occhi fosforescenti irruppe nella stanza. Lo scaraventarono sul pavimento e gli si ammucchiarono sopra. Gli avrebbero spappolato ogni osso del corpo se non fosse stato per il rapido intervento del suo benefattore. Egli vide i fantasmi e trasse in salvo il Nagual grazie a una buca scavata nel terreno sul retro della casa e che egli teneva pronta per eventuali necessità. Vi seppellì il Nagual mentre i fantasmi si acquattavano tutto intorno aspettando un’occasione propizia. Il Nagual mi disse che era talmente terrorizzato da tornarsene ogni sera a dormire nella bara di terra di sua iniziativa anche molto tempo dopo che i fantasmi si erano volatilizzati. »

Pablito tacque. Sembravano tutti pronti ad andarsene. Si agitavano e cambiavano posizione come per mostrare che si erano stancati di star seduti.

Allora dissi loro che ero rimasto molto turbato all’udire il racconto del mio amico riguardo le passeggiate notturne degli





Atlantidi tra le piramidi di Tula. Non mi ero reso conto di come avessi accolto gli insegnamenti ricevuti fino allora da don Juan e don Genaro. Mi accorsi che avevo sospeso qualsiasi giudizio, anche se mi era chiaro che la possibilità che quelle colossali figure di pietra potessero camminare non entrava affatto nel regno delle speculazioni scientifiche. Questa mia reazione mi sorprendeva.

Spiegai loro, in ogni minimo dettaglio, che l’idea che gli Atlantidi camminassero di notte era un chiaro esempio della fissazione della seconda attenzione. Ero arrivato a questa conclusione usando il seguente gruppo di premesse: primo, che non siamo soltanto quello che il nostro buon senso ci spinge a credere. In realtà, siamo esseri luminosi, capaci di prendere consapevolezza della nostra luminosità. Secondo, che come esseri luminosi consci della nostra luminosità, sia- mo in grado di dispiegare differenti varietà della nostra con- sapevolezza, o attenzione, come la chiamava don Juan. Terzo, che tale dispiegamento può realizzarsi attraverso uno sforzo deliberato, come cercavamo di fare noi, o per caso, con un trauma fisico. Quarto, che c’era stato un tempo in cui volutamente gli stregoni fissavano differenti varietà della loro attenzione su oggetti materiali. Quinto, che gli Atlantidi, a giudicare da quella dislocazione così imponente, dovevano essere stati oggetto della fissazione di stregoni di tempi passati.

Dissi che il custode che aveva fornito quelle informazioni al mio amico aveva senza dubbio spiegato un’altra varietà della sua attenzione; poteva essere diventato involontariamente, anche solo per un momento, il ricettore di una proiezione della seconda attenzione degli stregoni. Per me non era quindi così assurdo pensare che il custode potesse aver visualizzato la fissazione di quegli stregoni.

Se quegli stregoni appartenevano alla stessa tradizione di don Juan e don Genaro, dovevano esser stati impeccabili nelle loro pratiche, nel qual caso non c’erano limiti a quello che avrebbero potuto conseguire con la fissazione della seconda attenzione. Se era loro intenzione far camminare gli Atlantidi di notte, ebbene, gli Atlantidi di notte avrebbero camminato. Mentre parlavo, le tre sorelline divennero sempre più agitate e furibonde con me. Quando smisi, Lydia mi accusò di non fare altro che parlare. Poi si alzarono tutte e tre e uscirono senza neanche salutare. Gli uomini le seguirono,


ma si fermarono sulla soglia e mi diedero la mano. La Gorda e io restammo nella stanza.

« In quelle donne c’è qualcosa che proprio non va dissi. »

« No. Sono soltanto stanche di parole » rispose la Gorda. « Da te s’aspettano un po’ d’azione. »

« E come mai i Genaros non sono stanchi di parole? » chiesi. « Sono più stupidi delle donne, loro » rispose seccamente. « E tu, Gorda? » le chiesi. « Sei stanca di parole anche tu? » « Io non so quel che sono » disse con solennità. « Quando sto con

te non lo sono, ma quando sto con le sorelline divento stanca morta, proprio come loro. »

Durante i giorni che seguirono, privi di particolari avvenimenti, io mi fermai con loro, e risultò chiaro che le sorelline mi erano totalmente ostili. I Genaros mi tolleravano senza fare storie. Solo la Gorda sembrava stare dalla mia parte. Cominciai a chiedermi perché. Lo domandai a lei prima di partire per Los Angeles.

« Non so come questo sia possibile, ma mi sono abituata a te » mi rispose. « E come se noi due fossimo insieme mentre le sorelline e i Genaros si trovano in un mondo diverso. »





sponsabilità che generava una tensione insostenibile. Avevo accettato

la funzione di capo che gli apprendisti credevano mi appartenesse, ma 2 non avevo alcuna idea di quel che dovessi fare.



VEDERE INSIEME

Per parecchie settimane dopo il mio ritorno a Los Angeles provai un senso di lieve disagio che cercai di minimizzare attribuendolo a capogiri o a un’improvvisa mancanza di respiro dovuta allo sforzo fisico. Questo mio stato toccò la punta massima una notte quando mi svegliai atterrito, incapace di respirare. Il medico che consultai diagnosticò il disturbo come iperventilazione, con molta probabilità causata da eccessiva tensione. Mi prescrisse un tranquillante e mi suggerì di respirare in un sacchetto di carta qualora l’attacco si fosse ripetuto.

Decisi di tornare in Messico per chiedere consiglio alla Gorda. Dopo che le ebbi riferito la diagnosi del dottore, mi assicurò con tutta calma che non si trattava affatto d’una malattia, che finalmente stavo perdendo le mie difese e che l’esperienza attraverso cui stavo passando era quella della perdita della mia forma umana e dell’ingresso in un nuovo stato di separazione dagli umani affari.

« Non cercare di opporti » disse. « La nostra reazione naturale è di lottare, e facendo così creiamo ostacoli. Dimentica la paura e segui passo per passo la perdita della tua forma umana. » Aggiunse che nel suo caso la disintegrazione della forma era iniziata dall’utero, con fortissimi dolori e un’insolita pressione che lentamente le si spostavano in due direzioni, giù per le gambe e su per la gola. Mi disse anche che gli effetti si sentono subito.

Io volevo registrare ogni sfumatura della mia entrata nel nuovo stato. Mi preparai a scrivere un resoconto particolareggiato di tutto quel che sarebbe successo, ma con mio enorme dispiacere tutto finì lì. Dopo alcuni giorni di infruttuosa attesa rinunciai alle spiegazioni della Gorda e conclusi che il medico aveva diagnosticato esattamente la mia condizione. Potevo spiegarmela benissimo. Mi ero sobbarcato una re-


La mia tensione si manifestò in una forma ancora più grave. Il mio consueto livello di energia stava rapidamente calando. Don Juan avrebbe detto che stavo perdendo il mio potere personale e che alla fine avrei perso anche la vita. Don Juan mi aveva indirizzato a vivere solo attraverso il potere personale, che io interpretavo come uno stato dell’essere, una relazione di ordine tra il soggetto e l’universo, una relazione che non si può infrangere senza arrivare alla morte del sog- getto. Poiché non c’era nessun prevedibile mezzo per cambiare questa situazione, avevo concluso che non m’aspettava altro che la fine. La mia sensazione d’essere finito sembrava mandare su tutte le furie gli apprendisti. Decisi di allontanarmi da loro un paio di giorni per fugare la mia tetraggine e la loro tensione.

Quando ritornai li trovai in piedi fuori del portone della casa delle sorelline, quasi fossero li ad attendermi. Nestor venne correndo fino alla macchina e prima ancora che avessi spento il motore si precipitò a dirmi che Pablito era scappato. Era andato a morire nella città di Tula, il luogo dei suoi antenati, disse Nestor. Ne fui atterrito. Mi sentivo colpevole.

La Gorda non condivideva le mie preoccupazioni. Era raggiante, trasudava soddisfazione.

« Quel ruffianello sta meglio da morto » disse. « Ora vivremo tutti d’accordo, come si dovrebbe. Il Nagual ci disse che tu avresti portato un cambiamento nella nostra vita. Be’, l’hai fatto. Pablito non è più qui a rompere. Te ne sei sbarazzato. Guarda come siamo felici. Stiamo meglio senza di lui. »

Mi sentivo. offeso dalla sua insensibilità. Dichiarai in tono fermo che don Juan aveva dato a tutti noi, con estrema coscienziosità, il modello di vita del guerriero. Puntualizzai che l’impeccabilità del guerriero richiedeva che io non lasciassi morire Pablito in quel modo.

« E cosa pensi di fare? » chiese la Gorda.

« Sceglierò uno di voi che vada a vivere con lui, » risposi fino al giorno in cui tutti voi, incluso Pablito, potrete lasciare questo posto. Mi risero in faccia, perfino Nestor e Benigno, che io ritenevo fossero





più vicini a Pablito. La Gorda rise più a lungo degli altri, certo per sfidarmi.

Mi rivolsi a Nestor e a Benigno, per trovare un aiuto morale. I due volsero lo sguardo altrove.

Feci appello alla maggiore comprensione della Gorda. La supplicai. Usai tutti gli argomenti che potei trovare. Lei mi guardava con profondo disprezzo.

Su, muoviamoci » disse agli altri.

Mi rivolse il più vacuo dei sorrisi. Si strinse nelle spalle e increspò appena le labbra in un’espressione vaga.

« Se vuoi venire con noi, sei il benvenuto, » disse « purché non faccia domande o parli di quel ruffianello. »

« Gorda, tu sei una guerriera senza forma, me l’hai detto tu stessa » dissi. « Perché, allora, giudichi Pablito? »

La Gorda non rispose, ma accusò il colpo. Si accigliò ed evitò il mio sguardo.

« La Gorda è con noi! » urlò Josefina con voce acutissima. Le tre sorelline si raccolsero attorno alla Gorda e la tirarono in casa. Le seguii. Anche Nestor e Benigno entrarono.

« Che hai intenzione di fare, prendere uno di noi con la forza? » chiese la Gorda.

Dichiarai a tutti che consideravo mio dovere aiutare Pablito e che avrei fatto lo stesso per chiunque di loro.

« Credi proprio di farcela? » chiese la Gorda, con occhi fiammeggianti d’indignazione.

Volevo urlare dalla rabbia, come avevo fatto una volta in loro presenza, ma le circostanze erano cambiate. Non potevo farlo. « Prenderò con me Josefina » dissi. « Io sono il Nagual. »

La Gorda abbracciò le tre sorelline e fece loro scudo col suo corpo. Stavano per prendersi per mano. Qualcosa mi diceva che, se l’avessero fatto, la loro forza riunita sarebbe stata tremenda, e inutili i miei sforzi per prendere Josefina. La mia unica possibilità era di colpire prima che potessero stringersi in gruppo. Spinsi Josefina con il palmo delle mani e la mandai barcollante al centro della stanza. Colpii Lydia e Rosa prima che avessero il tempo di riformare il gruppo. Si piegarono in due per il dolore. La Gorda mi assalì con furia. Non l’avevo mai vista così. Fu come l’attacco di una bestia selvaggia. Si


concentrò tutta in un unico colpo inferto con il corpo. Se mi avesse preso, sarei stato ucciso. Mi mancò di un paio di centimetri il torace. La afferrai alle spalle abbrancandola con una cintura anteriore e cademmo a terra. Continuammo a rotolarci l’uno sull’altro finché non fummo esausti. Il corpo le si rilassò. Cominciò ad accarezzarmi il dorso delle mani, ancora strettamente avvinghiate sul suo stomaco.

Mi accorsi che Nestor e Benigno stavano in piedi vicino alla porta. Sembravano tutti e due sul punto di star male. La Gorda sorrise timidamente e mi sussurrò all’orecchio quanto fosse contenta che l’avessi vinta.

Portai Josefina da Pablito. Sapevo che era l’unica tra gli apprendisti ad avere bisogno di qualcuno che si prendesse cura di lei ed era quella che meno irritava Pablito. Ero sicuro che il suo senso di cavalleria l’avrebbe obbligato a porgerle aiuto finché ne avesse avuto bisogno.

Un mese più tardi andai ancora in Messico. Pablito e Josefina erano tornati. Vivevano insieme nella casa di don Genaro, che dividevano con Benigno e Rosa. Nestor e Lydia abitavano da Soledad e la Gorda stava da sola nella casa delle sorelline.

« Ti sorprende la nostra nuova sistemazione? » mi chiese la Gorda. La mia sorpresa era più che evidente. Volevo conoscere quel che implicava la nuova sistemazione.

La Gorda mi lasciò capire in tono asciutto che non c’erano altre implicazioni di cui fosse al corrente. Avevano scelto di vivere in coppia, ma non come coppie. Aggiunse che, al contrario di quanto potessi pensare, erano tutti guerrieri impeccabili.

Il nuovo modello era abbastanza gradevole. Sembrava che ciascuno fosse completamente a suo agio. Non c’erano più bisticci o scoppi di rivalità fra di loro. Avevano anche preso a vestirsi con il costume indio tipico della regione. Le donne indossavano abiti con le gonne tutte arricciate, che arrivavano quasi a terra. Avevano scialli scuri e i capelli a treccia, tranne Josefina che portava sempre il cappello. Gli uomini avevano camicia e calzoni bianchi di tela sottile, quasi dei pigiami, e cappelli di paglia. Tutti portavano sandali fatti a mano.





Chiesi alla Gorda le ragioni di questo nuovo modo di vestire. Disse che si stavano preparando a partire. Prima o poi, con il mio aiuto o da soli, avrebbero abbandonato quella valle. Sarebbero andati verso un nuovo mondo, una nuova vita. Quando l’avessero fatto, avrebbero percepito il cambiamento; quanto più a lungo avessero portato le vesti indiane, tanto più drastico sarebbe stato il mutamento quando avrebbero indossato abiti da città. Aggiunse che era stato loro insegnato a essere mutevoli, a proprio agio in qualsiasi situazione si trovassero, e che anch’io avevo appreso lo stesso insegnamento. Dovevo dimostrarmi capace di trattarli con serenità, quale che fosse il loro comportamento verso di me. A loro volta, dovevano dimostrarsi capaci di lasciare la loro valle e stabilirsi altrove, per vedere se potevano essere mutevoli come dovrebbero essere i guerrieri.

Le chiesi quale fosse onestamente la sua opinione sulle re- ciproche probabilità di successo. Rispose che il fallimento era scritto a chiare lettere sui nostri volti.

La Gorda cambiò brusca argomento, e mi disse che nel suo sognare si era trovata a contemplare una gigantesca e stretta gola fra due enormi montagne rocciose; pensava di aver riconosciuto le due montagne, e voleva che l’accompagnassi con la macchina in una città vicina. Credeva, senza sapere il perché, che le due montagne si trovassero lì, e che il messaggio del sogno fosse che dovessimo andarci tutti e due.

Partimmo al primo levar del sole. Avevo attraversato quella città già un’altra volta. Era molto piccola, e non avevo mai notato nulla nelle vicinanze che assomigliasse sia pur minimamente alla visione della Gorda. Intorno c’erano solo colline franose. Risultò che le due montagne non erano lì, o, se c’erano, non riuscimmo a trovarle.

Durante le due ore che passammo in quella città, tuttavia, entrambi avemmo la sensazione di essere a conoscenza di qualcosa di indefinito, una sensazione che ogni tanto si tramutava in certezza per ridiventare di nuovo dubbio e finire solo in fastidio e frustrazione. La visita della città ci turbò in modo misterioso; o, piuttosto, per ragioni sconosciute fummo presi da una profonda agitazione. Mi trovavo alle prese con un conflitto quanto mai illogico. Non ricordavo di essermi mai fermato in quella città, però avrei giurato che non solo c’ero già


stato ma ci avevo anche abitato per un certo periodo. Non era un ricordo nitido; non riconoscevo le strade o le case. Quello che sentivo era una vaga ma forte apprensione che qualcosa sarebbe diventato chiaro nella mia mente. Non sapevo cosa, forse un ricordo. Ogni tanto quella vaga apprensione ingigantiva, specie quando scorsi una certa casa. Parcheggiai proprio di fronte. La Gorda e io la osservammo dal- la macchina per forse un’ora e tuttavia né lei né io proponemmo di scendere dall’auto per entrarvi.

Eravamo entrambi estremamente tesi. Cominciammo a parlare della sua visione delle due montagne; la conversazione si tramutò presto in discussione. Lei pensava che non avessi preso sul serio il suo sogno. Il nostro cattivo umore esplose e finimmo per urlare uno contro l’altro, non tanto per effetto dell’ira, quanto del nervosismo. Me ne accorsi e smisi. Al ritorno parcheggiai la macchina .su un lato della strada battuta. Uscimmo per sgranchirci le gambe. Camminammo un po’; c’era troppo vento per goderci la sosta. La Gorda sembrava ancora agitata. Tornammo a sederci in macchina.

« Se soltanto tu volessi concentrare tutta la tua conoscenza » disse la Gorda in tono supplichevole. « Sapresti che chi ha perso la forma umana… »

Si fermò a metà frase; il mio cipiglio doveva averla bloccata. Era conscia della mia lotta. Se ci fosse stata in me qualche conoscenza che avrei consciamente potuto richiamare, l’avrei già fatto. « Ma noi siamo esseri luminosi » continuò nello stesso tono supplichevole. « Ci sono tante altre cose, in noi. Tu sei il Nagual. Tu ne hai ancora di più.»

« Cosa pensi che debba fare? » chiesi.

« Devi smetterla con il tuo attaccamento alle cose » disse. « A me è accaduto proprio lo stesso. Ero attaccata a tutto, per esempio, al cibo che mi piaceva, alle montagne dove abitavo, alla gente con cui mi divertivo a parlare. Ma soprattutto ero attaccata alla voglia di essere amata. »

Le dissi che il suo consiglio per me non aveva senso, in quanto non avevo coscienza di essere attaccato a nulla. Insistette che in qualche modo dovevo sapere che mi stavo creando ostacoli al processo per la perdita della mia forma umana.





« La nostra attenzione è esercitata a concentrarsi con tenacia » continuò. « Questo è il modo con cui sosteniamo il mondo. La nostra prima attenzione ha appreso a concentrarsi su qualcosa che è del tutto estraneo a me, ma molto familiare a te. »

Le dissi che la mia mente vive fra le astrazioni — non astrazioni come la matematica, per esempio, ma piuttosto asserzioni di logica.

« Oramai è tempo di lasciare andare ogni cosa » disse. Per perdere la tua forma umana devi abbandonare tutta questa zavorra. Hai così paura di sbilanciarti che resti paralizzato. »

Non ero nell’umore giusto per discutere. Quello che lei chiamava perdere la forma umana era un concetto troppo vago perché io lo prendessi subito in considerazione. Mi preoccupava poi quello che avevamo trovato in quella città. La Gorda non ne volle parlare.

« L’unica cosa che conti è che ti decida a concentrare la tua conoscenza » insistette. « Puoi farlo, se ne senti la necessità, come quel giorno in cui Pablito fuggì via e noi due ce le siamo date. »

La Gorda disse che quanto era successo quel giorno era un esempio di come si può concentrare la propria conoscenza. Senza essere del tutto cosciente di quello che facevo, avevo compiuto delle complesse manovre che richiedevano di vedere.

« Non è che tu ci abbia assalito » disse. « Tu hai visto. »

Aveva ragione, in un certo senso. In quell’occasione era successo qualcosa di assolutamente straordinario. L’avevo riesaminato a fondo, confinandolo tuttavia a considerazioni puramente personali. Non ne avevo trovato una spiegazione adeguata, salvo a dire che la carica emotiva del momento aveva avuto su di me un effetto impensabile.

Quando, entrato in casa delle quattro donne, me le trovai di fronte, mi accorsi nella frazione di un secondo che ero in grado di mutare i miei mezzi di percezione ordinari. Mi vidi davanti quattro bolle amorfe che emettevano una intensissima luce ambrata. Una di esse era più calda, più cordiale. Le altre tre erano bagliori ostili, freddi, biancastri. Il bagliore caldo era la Gorda. E in quel momento i tre bagliori ostili stavano profilandosi minacciosamente su di lei.

La bolla di luminosità biancastra più vicina a me, che era Josefina, si trovava un po’ sbilanciata. Era inclinata, così le diedi una spinta. Poi diedi un calcio alle altre due in una depressione che ciascuna aveva sul fianco destro. Non avevo una idea cosciente che


col piede dovessi colpire proprio lì. Trovai solo che quell’incavo mi andava bene — in qualche modo mi invitava a metterci dentro il piede. Il risultato fu devastante. Lydia e Rosa svennero di colpo. Le avevo colpite alla coscia destra. Non era un calcio che potesse rompere le ossa, mi ero limitato a spingere davanti a me col piede le bolle di luce. Cionondimeno, fu come se avessi inferto loro un terribile colpo nella parte più vulnerabile del corpo.

La Gorda aveva ragione. Avevo richiamato una conoscenza di cui non ero consapevole. Se questo si chiamava vedere, la conclusione logica per il mio intelletto sarebbe stata l’affermazione che il vedere è una conoscenza del corpo. Il predominio del senso visivo influenza in noi la conoscenza del corpo e la fa sembrare collegata con la vista. Ma quello che avevo sperimentato non era del tutto visuale. Io vidi le bolle di luce con qualcosa che stava al di là dei miei occhi, poiché ero conscio che le quattro donne restarono nel mio campo visivo per tutto il tempo in cui ebbi a che fare con loro. Né le bolle di luce si sovrapponevano a esse. Le sue serie di immagini erano separate. Quello che mi complicava le cose era la questione del tempo. Tutto era compresso nello spazio di pochi secondi. Se mi fossi spostato da una scena all’altra, questo spostamento avrebbe dovuto essere così rapido da non avere più senso, per cui posso solo ricordarmi di averne percepito due contemporaneamente. Dopo che ebbi preso a calci le due bolle di luce, la più calda — la Gorda — mi si avvicinò. Non si diresse verso di me, ma si spostò alla mia sinistra, man mano che si muoveva; ovvio, intendeva evitarmi, cosicché quando la bolla mi sfiorò la afferrai. Mentre continuavo a rotolarmici insieme sul pavimento, sentii che mi stavo fondendo in essa. Questo fu l’unico momento in cui persi coscienza della continuità del tempo. Tornai in me di nuovo mentre la Gorda stava accarezzandomi il dorso delle mani.

« Nei nostri sogni le sorelline e io abbiamo imparato a con- giungere le mani » disse la Gorda. « Sappiamo come creare un unico fronte. Quel giorno il nostro problema era che non avevamo mai fatto questo fuori della nostra camera. Ecco perché mi trascinarono dentro. Il tuo corpo sapeva che cosa significasse per noi congiungere le mani. Se l’avessimo fatto, io sarei stata sotto il loro controllo. Esse sono molto più violente di quanto non sia io. I loro corpi sono rigidamente





sigillati, il sesso non le interessa. A me sì. Questo mi rende debole. Sono sicura che è il tuo interesse per il sesso che ti rende così difficile radunare la tua conoscenza.

Continuò a parlare degli effetti debilitanti della vita sessuale. Mi sentivo a disagio. Cercai di sviare la conversazione da quell’argomento, ma lei sembrava determinata a tornarvi sopra, malgrado il mio imbarazzo.

« Andiamo insieme a Città del Messico » proposi in preda alla disperazione.

Pensavo di scandalizzarla. Non rispose. Strinse le labbra socchiudendo gli occhi. Contrasse i muscoli del mento, spingendo il labbro superiore finché le sporse sotto il naso. Il viso le si contrasse tanto da sorprendermi. Lei reagì alla mia sorpresa e allentò i muscoli facciali.

« Su, Gorda » dissi. « Andiamo a Città del Messico. » « Certo. Perché no? » disse. « Cosa mi serve? » Non mi aspettavo questa reazione, e finii con il rimanere di sasso

io. « Nulla » dissi. « Andiamo così come siamo. » Senza aggiungere parola si abbandonò sul sedile e partimmo

verso Città del Messico. Era ancora presto, non era neppure mezzogiorno. Le chiesi se avrebbe osato venire a Los Angeles con me. Rimase sovrappensiero per un momento.

« L’ho appena chiesto al mio corpo luminoso » disse. « Cosa ha risposto? » « Ha detto: “Solo se il potere te lo permette”.» C’era una tale ricchezza di sensazioni nella sua voce che fermai la

macchina e l’abbracciai. Il mio affetto per lei in quel momento era così profondo che ne fui spaventato. Non aveva nulla a che fare con il sesso, o il bisogno di un aiuto psicologico; era un sentimento che trascendeva tutto quello che conoscevo. L’abbraccio della Gorda mi riportò quell’impressione che avevo avuto prima. Stava per venire a galla qualcosa che era stato rinchiuso, confinato in angoli che io non potevo raggiungere coscientemente. Ero sul punto di scoprire cosa fosse, ma lo persi quando tentai di afferrarlo.

La Gorda e io arrivammo nella città di Oaxaca nelle prime ore della sera. Parcheggiai la macchina in una via laterale e ci dirigemmo a piedi verso il centro, verso la plaza. Cercammo la panchina dove


erano soliti sedersi don Juan e don Genaro. Era vuota. Ci sedemmo in reverente silenzio. Alla fine la Gorda disse di essere venuta lì parecchie volte con don Juan e anche con un’altra persona che non riusciva a ricordare. Non era sicura che non fosse soltanto un sogno.

« Che cosa facevi con don Juan su questa panchina? » le domandai.

« Nulla. Stavamo semplicemente seduti ad aspettare l’autobus, o l’autocarro del legname che ci avrebbe dato un passaggio fino in montagna » rispose.

Le dissi che .quando io mi sedevo lì con don Juan parlavamo per ore e ore.

Le riferii il grande amore che aveva per la poesia, e come io ero solito leggergli qualcosa qùando non avevamo nient’altro da fare. Ascoltava le poesie con il presupposto che solo la prima strofa, o talvolta la seconda, valesse la pena di essere letta; il resto lo considerava puro compiacimento del poeta. C’erano pochissimi componimenti, delle centinaia che devo avergli letto, che stette a sentire da capo a fondo. All’inizio gli leggevo quello che piaceva a me; le mie preferenze andavano alla poesia astratta, complessa, cerebrale. In seguito mi fece leggere e rileggere quello che piaceva a lui. Secondo lui una poesia doveva essere compatta, possibilmente breve. E doveva essere composta di immagini precise e nitide di estre- ma semplicità. Nel tardo pomeriggio, seduti su quella panchina di Oaxaca, una poesia di Cesar Vallejo sembrava assumere ogni volta per lui un particolare senso di nostalgia. La recitai alla Gorda a memoria, non tanto per beneficio suo quanto mio.

Mi chiedo cosa stia facendo a quest’ora la mia dolce Rita delle Ande, dei canneti e dei ciliegi selvatici. Ora che questo tedio mi soffoca e il sangue mi si è assopito, pigra acquavite del mio essere.

Mi chiedo cosa stia facendo con quelle mani che, quasi in penitenza, eran solite stirare inamidati candori, nei pomeriggi.





Ora che questa pioggia mi porta via il desiderio di continuare.

Mi chiedo che ne è della sua gonna con gli smerli; dei suoi travagli; della sua andatura; del suo profumo di canna da zucchero primaverile, di là.

Dev’essere sulla soglia, intenta a guardare una nuvola veloce. Un uccello di macchia sui tegoli del tetto manda un richiamo; e con un brivido lei dirà, alla fine: « Gesù, che freddo! ».

Il ricordo di don Juan era vivo in modo incredibile. Non era un ricordo a livello dei miei pensieri, né a livello dei miei sentimenti coscienti. Era uno sconosciuto tipo di ricordo che mi faceva piangere. Le lacrime mi scorrevano sulle guance, ma non mi portavano nessuna consolazione.

L’ultima ora del pomeriggio aveva sempre avuto un significato speciale per don Juan. Avevo accettato la sua considerazione per quest’ora, e la sua convinzione che se mai qualcosa di importante dovesse succedermi, sarebbe successo in quei momenti.

La Gorda mi posò il capo sulla spalla. Io appoggiai il mio al suo. Rimanemmo per un po’ in quella posizione. Mi sentivo calmo; l’agitazione era stata scacciata via. Strano che il semplice atto di appoggiare la mia testa a quella della Gorda mi apportasse tanta pace. Volevo scherzare e dirle che avremmo dovuto legarle assieme. Poi capii che mi avrebbe preso sul serio. Il mio corpo fu scosso dalle risa, e mi resi conto che stavo dormendo, eppure avevo gli occhi aperti; se l’avessi davvero voluto, avrei potuto alzarmi in piedi. Non volevo muovermi, così me ne rimasi lì completamente sveglio eppure addormentato. Vedevo la gente che passava e ci guardava stupita. Non me ne importava neanche un po’. Di solito mi avrebbe dato fastidio essere osservato. Ma a un tratto tutte le persone dinanzi a me si mutarono in enormi bolle di luce bianca. Per la prima volta in vita mia avevo di fronte uova luminose in forma sostenuta! Don Juan mi aveva detto che gli esseri umani appaiono a chi vede come uova luminose. Avevo già provato accenni di quella percezione, ma non avevo mai concentrato la mia vista su di essi come stavo facendo quel giorno.


All’inizio le bolle di luce erano piuttosto amorfe come se non fossi riuscito a mettere a fuoco lo sguardo. Ma poi, all’improvviso, fu come se avessi regolato la vista, e le bolle di luce bianca divennero oblunghe uova luminose. Ed erano davvero grandi, enormi, alte forse due metri e larghe uno, se non di più.

A un certo punto mi accorsi che le uova non si muovevano più. Vidi di fronte a me una densa massa luminosa. Le uova mi stavano esaminando; torreggiavano pericolosamente sopra di me. Decisi di muovermi e mi posi a sedere con la schiena dritta. La Gorda dormiva sodo, appoggiata alla mia spalla. Attorno a noi si era formato un capannello di ragazzi. Dovevano aver pensato che fossimo ubriachi. Ci stavano scimmiottando. Il più audace di loro stava palpando il seno della Gorda. La scossi, svegliandola. Ci alzammo in fretta e ce ne andammo. Quelli ci seguirono schernendoci e urlando oscenità. La presenza di un poliziotto all’angolo li dissuase dal continuare a molestarci. Camminammo in completo silenzio dalla plaza al posto dove avevo parcheggiato. Era quasi buio. All’improvviso la Gorda mi afferrò il braccio. Aveva gli occhi sbarrati, la bocca aperta.

« Guarda! Guarda! » mi urlò. « Ecco il Nagual e Genaro! »

Vidi due uomini che giravano l’angolo di un lungo isolato davanti a noi. La Gorda spiccò una rapida corsa. Correndole dietro le chiesi se fosse sicura. Era fuori di sé. Mi disse che quando aveva alzato gli occhi, sia don Juan sia Genaro la stavano guardando. Nel momento in cui il suo sguardo aveva incontrato il loro, essi si erano mossi.

Quando anche noi raggiungemmo l’angolo, i due uomini erano ancora alla stessa distanza da noi. Non potevo distinguerne i tratti del volto. Erano vestiti come contadini messicani. Portavano cappelli di paglia. Uno era ben piantato, come don Juan, l’altro magro, come don Genaro. I due girarono un altro angolo, e noi di nuovo ci mettemmo a inseguirli correndo. La strada nella quale avevano voltato era deserta, e conduceva verso la periferia. Curvava leggermente a sinistra. I due erano giusto sulla curva. Proprio allora accadde qualcosa che mi fece ritenere possibile si potesse trattare davvero di don Juan e don Genaro. Fu un gesto fatto dal più piccolo dei due. Si voltò di tre quarti verso di noi e chinò la testa, quasi per invitarci a seguirlo, un gesto che don Genaro usava con me quando andavamo per boschi. Lui camminava





sempre davanti a me, baldanzoso, e mi incoraggiava con quel cenno della testa a stargli dietro.

La Gorda cominciò a gridare con quanto fiato aveva in gola: « Nagual! Genaro! Aspettate! »

Mi passò avanti correndo. Quelli camminavano frettolosi verso alcune baracche che si distinguevano appena nella semioscurità. Dovevano essere entrati in una di esse, o aver preso per uno degli innumerevoli sentieri: a un tratto sparirono dalla vista.

La Gorda si fermò e si mise a urlare a perdifiato i loro nomi, senza ritegno. La gente usciva a vedere chi facesse tutto quel baccano. La trattenni finché si calmò.

« Erano proprio davanti a me » diceva piangendo. « Non erano lontani neppure tre metri. Quando te li indicai gridando furono di colpo lontani tutto un isolato. »

Cercai di tranquillizzarla. Era in uno stato di profondo nervosismo. Mi si aggrappò tremando. Per qualche imperscrutabile ragione ero assolutamente sicuro che i due uomini non erano don Juan e don Genaro. Quindi non potevo condividere l’agitazione della Gorda. Mi disse che dovevamo tornare a casa, che il potere non le avrebbe permesso di venire con me a Los Angeles e neanche a Città del Messico. Non era ancora giunto il tempo per il suo viaggio. Era convinta che l’averli incontrati fosse stato un presagio. Loro erano spariti verso est, verso la sua città.

Non avevo alcuna obiezione a ripartire in quello stesso istante. Dopo quanto ci era capitato quel giorno avrei dovuto essere stanco morto. Ero invece tutto vibrante di un incredibile vigore, che mi ricordava i tempi passati con don Juan, quando io mi sentivo quasi di abbattere i muri a spallate.

Ritornando alla macchina fui di nuovo sommerso dal più appassionato affetto per la Gorda. Non avrei mai potuto ringraziarla abbastanza per il suo aiuto. Pensavo che qualunque fosse la cosa che aveva fatto per aiutarmi a vedere le uova luminose, c’era riuscita. Era stata così coraggiosa, aveva affrontato il ridicolo e anche un rischio fisico sedendosi su quella panchina. Le espressi la mia riconoscenza. Mi guardò come se fossi matto, poi si sbellicò dalle risa.

Pensavo la stessa cosa di te disse. « Pensavo che tu l’avessi fatto proprio per me. Anch’io ho visto le uova luminose. Anche per me


questa è stata la prima volta. Abbiamo visto insieme! Come facevano il Nagual e Genaro. »

Mentre aprivo lo sportello della macchina alla Gorda, fui colpito da tutto il significato di quello che avevamo fatto. Fino a quel momento ero rimasto intontito, c’era qualcosa in me che aveva rallentato il passo. Ora la mia euforia era intensa così come lo era stata l’agitazione della Gorda alcuni istanti prima. Volevo correre in strada e gridare. Ora toccava alla Gorda trattenermi. Si acquattò e mi sfregò i polpacci. Stranamente mi calmai subito. Scopersi che mi era difficile parlare. I pensieri erano più veloci della mia capacità di esprimerli. Non volevo riportare subito indietro, la Gorda nella sua città. Sembrava che ci fosse ancora tanto da fare. Poiché non riuscivo a spiegare con chiarezza quello che volevo, mi trascinai di nuovo una riluttante Gorda nella plaza, ma a quell’ora non c’erano più panchine vuote. Avevo fame, così la portai in un ristorante. Lei credeva di non riuscire a mangiare, ma quando fu servito in tavola risultò che anche lei aveva fame come me. Il pranzo ci rilassò completamente.

Ci sedemmo sulla panchina più tardi, quella sera. Mi ero trattenuto dal parlare di quello che ci era capitato finché non avessimo avuto la possibilità di tornarci a sedere. In principio la Gorda non aveva voglia di dire nulla. La mia mente era in un particolare stato di euforia. Avevo provato momenti simili con don Juan, ma collegati, di solito, ai postumi delle piante allucinogene.

Incominciai a descrivere alla Gorda quello che avevo visto. La particolarità di quelle uova luminose che .più mi aveva colpito era il loro movimento. Non camminavano. Si muovevano come se galleggiassero, e tuttavia toccavano il terreno. Il modo con cui si muovevano non era gradevole. I movimenti erano innaturali, legnosi, a scatti. Quando erano in moto tutta la forma delle uova diventava più piccola e più rotonda; sembravano saltare o sussultare, o agitarsi su e giù a gran velocità. Il risultato era un tremolio nervoso che dava estremamente fastidio. Forse il modo più efficace per descrivere il disagio fisico causato da questo loro moto ~ dire che mi sentivo come se fossero state accelerate le immagini su uno schermo cinematografico.

Un’altra cosa che mi aveva incuriosito era che non riuscivo a scorgere traccia di gambe. Una volta avevo visto un balletto nel quale





i ballerini imitavano i movimenti dei soldati sui pattini: per rendere questo effetto indossavano larghe tuniche sciolte che rimanevano sempre a contatto con il terreno. Non era possibile vederne i piedi: da qui l’illusione che stessero scivolando sul ghiaccio. Le uova luminose che erano sfilate di fronte a me, davano l’impressione di scivolare su una superficie irregolare. La loro luminosità ondeggiava quasi impercettibilmente e comunque quel che bastava per farmi quasi sentir male. Quando le uova stavano ferme si allungavano. Alcune erano tanto lunghe e rigide da farmi venire in mente le icone di legno.

Ma la caratteristica che mi turbava ancora di più era la mancanza di occhi. Non mi ero mai reso così conto di quanto siamo attirati dagli occhi degli esseri viventi. Le uova luminose erano ben vive: mi osservavano con grande curiosità. Potevo vederle muoversi a scatti su e giù, chinandosi a guardarmi, ma senza occhi.

Molte di quelle uova luminose avevano delle macchie nere, delle grandi macchie, nella parte inferiore. Altre ne erano prive. La Gorda mi aveva detto che la riproduzione ha l’effetto di far apparire un buco sotto lo stomaco sia nei corpi degli uomini sia in quelli delle donne; però le macchie di quelle uova luminose non mi sembravano buchi. Erano aree opache ma prive di profondità. Chi aveva queste macchie nere sembrava mite, stanco; la parte superiore del loro profilo oblungo era vizza, sembrava opaca in confronto al resto del loro luccichio. Quelli senza macchia erano invece di uno splendore accecante. Mi immaginai che fossero pericolosi. Erano vibranti, pieni di energia e di candore.

La Gorda mi disse che nell’istante in cui avevo appoggiato la testa sulla sua, anche lei era entrata in uno stato che sembrava quello del sogno. Era sveglia, eppure non poteva muoversi. Era conscia che la gente ci mulinava attorno. Poi li vide cambiarsi in bolle luminose e alla fine in creature a forma di uovo. Non sapeva che anch’io le vedessi. Dapprima aveva pensato che io stessi badando a lei, ma a un certo punto il peso della mia testa era diventato tale da farle concludere, assai lucidamente, che anch’io dovevo star vedendo. Solo quando mi raddrizzai e scorsi il ragazzotto che stava palpandola credendo che dormisse, ebbi una vaga idea di quello che forse le stava succedendo.


Le nostre visioni erano diverse perché lei riusciva a distinguere gli uomini dalle donne dalla forma di certi filamenti che chiamava « radici». Le donne, mi disse, avevano grossi fasci di filamenti che assomigliavano a una coda di leone; crescevano verso l’interno dei genitali. Mi spiegò che quelle radici sono le fonti della vita. L’embrione, per crescere, si attacca a una delle radici nutrici e la consuma tutta lasciando solo un buco. Gli uomini, invece, avevano .filamenti corti che guizzavano e galleggiavano quasi indipendentemente dalla massa luminosa dei loro corpi.

Le chiesi quale fosse secondo lei il motivo per cui avevamo visto insieme. Si rifiutò di fare qualsiasi commento, ma mi convinse a proseguire con le mie speculazioni. Le dissi che l’unica cosa che mi veniva in mente era ovvia: il fattore principale doveva essere stata l’emozione.

Infatti, dopo che la Gorda e io ci eravamo seduti sulla panchina favorita di don Juan, quel tardo pomeriggio, e io avevo recitato la poesia che lui preferiva, ero giunto a un alto livello di emozione. Questa doveva aver preparato il mio corpo.. Ma dovevo anche tener presente il fatto che esercitandomi a sognare avevo imparato a entrare in uno stato di calma perfetta. Ero capace di bloccare il mio dialogo interno e rimanere come se fossi chiuso in un bozzolo a guardare furtivamente fuori da un buco. In questo stato potevo sia abbandonare l’ultimo controllo che avevo ed entrare nei sogno, sia mantenere questo controllo e rimanere passivo, vuoto di pensieri e desideri. Non pensavo che questi fossero fattori fondamentali. Credevo che il catalizzatore fosse la Gorda. Ritenevo che fosse il mio sentimento per lei ad aver creato le condizioni per vedere.

La Gorda rise timida quando le riferii le mie conclusioni.

« Non sono d’accordo con te » disse. « Deve essere successo che il tuo corpo ha cominciato a ricordare. »

« Cosa vuoi dire? » chiesi.

Ci fu una lunga pausa. Sembrava stesse lottando per dire qualcosa che non voleva, oppure che tentasse disperatamente di trovare le parole giuste.

« Ci sono tante cose che so, » disse « eppure non so quello che so. Mi ricordo di tante cose che finisco per non ricordare più nulla. Penso che tu abbia lo stesso problema. »





Le assicurai che non me ne ero accorto. Si rifiutò di credermi.

« A volte mi pare proprio che tu non sappia » disse. « Altre volte che ti stia prendendo gioco di noi. Il Nagual mi diceva che neppure lui sapeva. Ora mi stanno tornando in mente un mucchio di cose che lui mi aveva detto su dite. »

« Cosa vuoi dire che il mio corpo ha incominciato a ricordare? » insistei.

« Non chiedermelo » mi rispose con un sorriso. « Non so quel che dovresti ricordare, né di che tipo siano questi ricordi. Non l’ho mai provato neanch’io. È tutto quello che so. »

« C’è qualcuno fra gli apprendisti che potrebbe spiegarmelo? » chiesi.

« Nessuno » disse. Penso di essere un messaggero per te, che questa volta può portarti solo metà messaggio.

Si alzò e mi pregò di riportarla alla sua città. Ero troppo euforico per partire in quel momento. Proposi di passeggiare un po’ nella plaza. Alla fine ci sedemmo su un’altra panchina.

« Non ti sembra strano che abbiamo potuto vedere insieme con tanta facilità? » chiese la Gorda.

Non sapevo cosa avesse in mente. Esitavo a ribattere. « Che mi risponderesti se ti dicessi che secondo me abbiamo già sognato insieme prima? » chiese la Gorda, enunciando le parole con molta attenzione. Non riuscivo a capire cosa volesse dire. Mi ripeté la domanda e di nuovo me ne sfuggì il significato.

« Quando mai avremmo potuto vedere insieme prima? » chiesi. « La tua domanda non ha senso. »

« Questo è il punto » rispose. « Non ha senso e tuttavia ho la sensazione che noi abbiamo già visto insieme. »

Sentii un brivido e mi alzai. Di nuovo mi ricordai la sensazione che avevo avuto in quella città. La Gorda mosse le labbra per dire qualcosa, ma si fermò a metà frase. Mi sgranò gli occhi in faccia, turbata, mi pose la mano sulla bocca e poi mi trascinò letteralmente fino alla macchina.

Guidai tutta notte. Volevo parlare, analizzare, ma lei si addormentò come a evitare di proposito qualsiasi discussione. Senza dubbio aveva ragione. Fra noi, era lei quella che sapeva il rischio di rovinare uno stato d’animo con una analisi eccessiva.


Giunti a casa sua, mentre usciva dalla macchina, mi disse che non potevamo assolutamente parlare di quello che ci era successo a Oaxaca.

« Come mai, Gorda? » chiesi.

« Non voglio disperdere il nostro potere disse. Questa è la norma degli stregoni. Non sprecare quello che hai guadagnato. »

« Ma se non ne parliamo, non sapremo mai quello che ci è veramente accaduto » protestai.

Dobbiamo stare tranquilli per almeno nove giorni » disse. « Ma non possiamo parlarne almeno noi due? chiesi. « Parlarne solo tra noi è proprio quello che dobbiamo evitare » disse. « Noi siamo vulnerabili Dobbiamo concederci il tempo di riprenderci. »





3

QUASI MEMORIE DEL PROPRIO ALTRO

« Ci puoi dire cosa succede? mi chiese Nestor quando ci ritrovammo tutti insieme quella notte. Dove siete andati ieri, voi due? »

Avevo dimenticato la raccomandazione della Gorda di non parlare della nostra avventura. Incominciai a raccontare che eravamo prima andati alla città vicina, e vi avevamo trovato una casa che ci aveva assai incuriosito.

Sembravano tutti colti da un improvviso tremore. Alzarono gli occhi, si guardarono l’un l’altro, e poi fissarono la Gorda come aspettandosi che fosse lei a raccontare tutto.

« Che tipo di casa era? » chiese Nestor.

Prima che avessi il tempo di rispondere, la Gorda mi interruppe. Incominciò a parlare in fretta, in modo quasi incoerente. Era evidente che stava improvvisando. Usò perfino parole e frasi in mazateco. Mi lanciò occhiate furtive che erano una muta preghiera a non dire nulla.

« Cosa ci dici del tuo sognare, Nagual? » mi chiese, con il sollievo di chi ha trovato la via di uscita. « Ci piacerebbe sapere tutto quello che fai. Credo sia molto importante che tu ce lo racconti. »

Si chinò su di me e, cercando di non farsi accorgere, mi sussurrò all’orecchio che, a causa di quello che era successo a Oaxaca, dovevo raccontare loro i miei sogni.

« Di che importanza possono essere per voi? » chiesi ad alta voce.

« Penso che siamo molto prossimi alla fine dichiarò solen nemente la Gorda. « Qualsiasi cosa tu dica o faccia per noi è ora di capitale importanza. »

Riferii loro gli avvenimenti di quello che ritenevo il mio vero sogno. Don Juan mi aveva detto che non c’era motivo di mettere in risalto le prove. Mi diede una regola pratica: se avessi avuto la stessa


visione tre volte, mi disse, avrei dovuto concederle una profonda attenzione; altrimenti i tentativi del neofita avrebbero rappresentato soltanto un gradino verso il raggiungimento della seconda attenzione.

Una volta sognai che mi svegliavo e saltavo giù dal letto per trovarmi poi di fronte un me stesso che stava ancora dormendo. Mi osservai mentre dormivo ed ebbi sufficiente controllo di me per ricordarmi che stavo sognando. Allora seguii le istruzioni che don Juan mi aveva dato, di evitare cioè ogni scossa o sorpresa, e di considerare la situazione con un po’ di buon senso. Il sognatore deve dedicarsi a esperimenti spassionati, diceva don Juan. Invece di esaminare il proprio corpo addormentato, il sognatore esce dalla stanza. Subito mi trovai, senza sapere come, fuori dalla mia camera. Avevo la nettissima sensazione di esservi stato trasportato all’istante. Appena mi trovai fuori dalla porta, l’ingresso e le scale mi parvero monumentali. Se vi fu qualcosa che quella notte davvero mi spaventò, furono le dimensioni di quelle strutture, che nella realtà erano del tutto normali; l’ingresso era lungo una quindicina di metri e la scala aveva sedici gradini. Non riuscivo a immaginare come avrei potuto coprire le enormi distanze che mi si paravano dinanzi. Vacillavo, poi qualcosa mi fece avanzare. Tuttavia non camminavo. Non sentivo i miei passi. A un tratto mi trovai afferrato alla ringhiera. Riuscivo a vedermi le mani e le braccia, ma non le sentivo. Mi tenevo con la forza di qualcosa che non aveva nulla a che fare con i muscoli che conoscevo. La stessa cosa mi accadde quando tentai di scendere le scale. Non mi ricordavo come si facesse a camminare. Non riuscivo a fare un passo. Era come se le mie gambe fossero saldate insieme. Potevo vederle, chinandomi, ma non riuscivo a muoverle né avanti né dilato, né potevo alzarle verso il petto, quasi fossero incollate al gradino più alto. Mi sembrava di essere come quelle bambole gonfiabili di plastica che possono piegarsi in ogni direzione fino a diventare orizzontali, solo per essere rimesse di nuovo in piedi dal peso della loro base rotonda.

Feci un supremo sforzo per camminare e rimbalzai da gradino a gradino come una palla maldestra. Arrivare al piano terreno mi richiese una concentrazione incredibile. Non potevo descrivere altrimenti quanto mi accadeva. Avevo bisogno di un certo grado di





attenzione anche per tenere a fuoco la mia visione e impedirle di disintegrarsi nelle fugaci immagini di un sogno normale.

Quando alla fine arrivai al portone non riuscivo ad aprirlo. Tentai disperatamente, ma senza alcun risultato; poi mi ricordai che ero uscito dalla mia stanza scivolandone fuori, come se la porta fosse stata aperta. Tutto quello che dovevo fare era ricordarmi la sensazione di scivolare e d’improvviso mi trovai in strada. Sembrava buio — una particolare oscurità grigio piombo che non mi permetteva di percepire nessun colore. La mia attenzione fu subito attirata da una enorme distesa di splendore proprio di fronte a me, a livello degli occhi. Dedussi, più che non percepii, che si trattava dell’illuminazione della strada, poiché sapevo che c’era un lampione all’angolo, a circa sei metri di altezza.

Mi accorsi che non avevo più la capacità di organizzare le mie percezioni in modo da differenziare su, giù, qui o là. Tutto sembrava essere straordinariamente presente. Non avevo più, come nella vita ordinaria, i meccanismi per coordinare le percezioni. Tutto era lì in primo piano, e mi mancava l’impulso per costruire un adeguato processo di cernita.

Rimasi in strada, sconcertato, finché cominciai ad avere la sensazione di levitare. Mi afferrai al palo metallico che sosteneva il lampione e la targa della via, all’angolo. Una forte brezza mi stava sollevando. Stavo scivolando su per il palo finché potei distinguere nitido il nome della strada: Ashton.

Alcuni mesi più tardi, quando in un sogno mi ritrovai di nuovo a contemplare il mio corpo addormentato, avevo già un repertorio di cose da fare. Nel corso dei miei sogni regolari avevo imparato che quello che importava in un tale stato era la volontà, l’esistenza materiale del corpo non aveva significato. E solo una memoria che rallenta il sognatore. Scivolai fuori dalla stanza senza esitazione, poiché non dovevo compiere i movimenti di aprire la porta o di camminare per muovermi. L’ingresso e le scale non erano poi così enormi come mi erano apparse la prima volta. Scivolai attraverso le cose con grande disinvoltura e mi trovai in strada dove mi imposi di spostarmi di tre isolati. Mi accorsi allora che le luci erano ancora una vista assai molesta. Se concentravo la mia attenzione su di esse, diventavano laghi incommensurabili. Gli altri elementi di quel sogno


erano invece facili da controllare. I palazzi erano smisurati, ma il loro aspetto mi era familiare. Ponderai sul da farsi. E d’un tratto, quasi per caso, mi resi conto che se non guardavo fisso gli oggetti ma li os- servavo solo con la coda dell’occhio, proprio come facciamo nella nostra vita normale, potevo coordinare la mia percezione. In altre parole, se seguivo alla lettera i suggerimenti di don Juan e davo per scontato i miei sogni, potevo usare le inclinazioni percettive della mia vita normale. Dopo pochi istanti lo scenario mi diventava, se non completamente familiare, per lo meno controllabile.

Le volte successive che ebbi un simile sogno, andai al mio caffè preferito, all’angolo. Lo scelsi perché ero solito frequentarlo sempre nelle primissime ore del mattino. Nel sogno vidi la cameriera che di norma faceva il secondo turno di notte; vidi una fila di gente che mangiava al banco, e proprio alla sua estremità scorsi uno strano personaggio, un uomo che vedevo quasi tutti i giorni camminare senza meta tra gli edifici dell’UCLA. Era l’unica persona che mi stesse guardando. Appena entrai sembrò sentirmi. Si volse e mi fissò.

Alcuni giorni dopo trovai la stessa persona, da sveglio, nello stesso caffè, di primo mattino. Mi diede uno sguardo e parve riconoscermi. Sembrò inorridito e corse via senza darmi l’occasione di parlargli.

Tornai ancora nello stesso caffè, e questo successe quando cambiò il corso dei miei sogni.

Mentre osservavo il ristorante dall’altro lato della strada, la scena si modificò. Non vedevo più gli edifici a me ben noti. Vedevo invece una scena primordiale. Non era più notte. Era una giornata radiosa e mi si stendeva davanti una vallata lussureggiante. Dappertutto crescevano piante palustri di un verde cupo, simili a canne. Presso di me si ergeva una cornice rocciosa alta da due a tre metri. Vi stava accovacciata una enorme tigre, uno smilodonte. Rimasi impietrito. Ci guardammo a lungo fissamente negli occhi. La taglia di quella fiera era impressionante, ma non sproporzionata né grottesca. Aveva una testa splendida, grandi occhi del colore del miele scuro, zampe massicce, un’enorme cassa toracica. Quello che più mi colpì fu il colore del manto. Era un uniforme marrone scuro, quasi cioccolato. Mi ricordava i chicchi di caffè tostato, solo che era lucido; aveva un





pelo insolitamente lungo, non setoloso o arruffato. Non assomigliava a quello di un puma, né di un lupo e nemmeno di un orso polare. Era qualcosa che non avevo mai visto prima.

Da allora, mi divenne abituale vedere la tigre. Alle volte il tempo era freddo e nuvoloso. Vedevo che pioveva nella valle, una pioggia fitta e copiosa. Altre volte la valle era immersa in un bagno di sole. Assai spesso scorgevo nella valle altri smilodonti. Potevo udire il loro caratteristico ruggito stridulo un suono per me quanto mai fastidioso.

La tigre non mi fece mai nulla. Ci squadravamo l’un l’altro, a circa tre metri di distanza. Eppure potevo indovinare quello che voleva. Mi stava mostrando come respirare con una tecnica speciale. Nel mio sogno giunsi a imitare così bene la respirazione della tigre che mi sembrava di diventare tigre io stesso. Riferii agli apprendisti che il tangibile risultato dei miei sogni fu il rafforzarsi della mia muscolatura.

Dopo aver udito il mio racconto, Nestor si meravigliò della differenza fra i loro sogni e i miei. I loro sogni avevano scopi particolari. Il suo era trovare rimedi contro tutti i mali, che affliggono il corpo; quello di Benigno era predire, prevedere, trovare una soluzione per qualsiasi problema di interesse umano. Il compito di Pablito era scoprire nuove tecniche di costruzione. Nestor disse che questi compiti spiegavano il perché lui si interessava di piante medicinali, Benigno aveva un oracolo e Pablito faceva il carpentiere. Aggiunse che fino a quel momento avevano esplorato appena la superficie dei loro sogni e non avevano nulla di importante da riferire.

« Potresti pensare che abbiamo fatto molto, » continuò « ma in realtà non è vero. Genaro e il Nagual facevano tutto per noi e per queste quattro donne. Noi non abbiamo ancora fatto nulla per conto nostro. »

« Mi sembra che il Nagual ti avesse avviato a qualcosa di diverso » disse Benigno, parlando molto adagio e con cautela. « Devi essere stato una tigre, e stai certamente per tornare a esserlo. E’ quello che è capitato al Nagual, prima lui era stato un corvo, e in questa vita tornò a esserlo. »

« Il problema è che quel tipo di tigre oggi non esiste più disse Nestor. Non sappiamo che cosa succede in un simile caso. »


Volse intorno il capo per includere con quel gesto tutti loro.

« Io so cosa succede » disse la Gorda. « Ricordo che il Nagual Juan Matus lo chiamava il sogno fantasma. Spiegò che nessuno di noi aveva mai fatto un sogno fantasma, perché non siamo né violenti né distruttori. Neppure lui ne aveva mai fatti. E disse che chiunque ne faccia è destinato dai fato ad avere aiutanti e alleati fantasmi. »

« Che vuoi dire, Gorda? » le chiesi. « Significa che tu non sei come noi » rispose solennemente. La Gorda sembrava molto agitata. Si alzò ed andò su e giù per la

stanza quattro o cinque volte, poi si sedette di nuovo accanto a me. Ci fu una pausa nella conversazione. Josefina mormorò qualcosa di inintelligibile. Sembrava anche nervosissima. La Gorda cercò di

calmarla, abbracciandola e dandole pacche sulla schiena. « Josefina ha qualcosa da raccontarci su Eligio » mi disse la

Gorda. Tutti si volsero verso Josefina, senza dir parola, con una domanda

nello sguardo. « Nonostante Eligio sia sparito dalla faccia della terra, » continuò

la Gorda « è ancora uno di noi. E Josefina gli parla sempre. » Gli altri divennero di colpo attenti. Si guardarono l’un l’altro, e

poi guardarono me. « Si incontrano in sogno » proseguì la Gorda in tono drammatico. Josefina emise un lungo sospiro, sembrava l’incarnazione stessa

del nervosismo. Era scossa da un tremito convulso. Pablito le si sdraiò sopra, sul pavimento, e incominciò a respirare profondamente con il diaframma, spingendolo dentro e fuori e forzandola a respirare all’unisono con lui.

« Cosa sta facendo? » chiesi alla Gorda. « Cosa sta facendo! Ma non lo vedi? » mi rispose brusca. Le dissi a bassa voce che comprendevo il suo tentativo di

calmarla, ma quel suo modo mi tornava nuovo. La Gorda mi spiegò che Pablito stava ridando energia a Josefina, sovrapponendo l’addome, dove gli uomini ne hanno in abbondanza, al grembo di Josefina, dove le donne immagazzinano la propria.

Josefina si mise a sedere e mi sorrise. Sembrava essersi perfettamente calmata.





« Perché non ce l’hai mai detto? » le chiese Pablito in tono stizzito.

« L’ha detto a me » lo interruppe la Gorda, e si addentrò poi in una lunga spiegazione sull’importanza che aveva per noi il fatto che Eligio fosse ancora a nostra disposizione. Aggiunse che era stata ad aspettare un mio cenno per rivelare le parole di Eligio.

« Veniamo al sodo, donna! » scoppiò Pablito. « Riferisci quello che ha detto. »

« Non è per te » gli urlò in faccia la Gorda. « E per chi, allora? » chiese Pablito. « E’ per il Nagual » gridò la Gorda, additandomi. La Gorda si scusò per aver alzato la voce. Disse che tutto quello

che Eligio aveva detto era complicato e misterioso, e lei non riusciva a venirne a capo.

« Stavo solo a sentirlo: era tutto quello che potevo fare, ascoltarlo » continuò.

« Vuoi dire che anche tu vedi Eligio? » disse Pablito, in un tono che era un misto di rabbia e di speranza.

« Certo » rispose la Gotda con un filo di voce. « Non potevo parlarvene perché dovevo aspettare lui. »

Indicò me e poi mi diede una spinta con tutte e due le mani. Persi l’equilibrio e caddi sul fianco.

« Cosa succede? Che gli stai facendo? » chiese Pablito con tono molto irritato. « Cos’è questa, un’esibizione di amore indio? »

Mi girai verso la Gorda. Con una mossa delle labbra mi chiese di starmene buono.

« Eligio dice che tu sei il Nagual, ma che non sei destinato a noi » mi disse Josefina.

La stanza piombò in un profondo silenzio. Non sapevo come prendere le dichiarazioni di Josefina. Dovevo aspettare che qualcun altro parlasse.

« Ti senti più sollevato? » mi stimolò la Gorda.

Dissi a tutti loro che non avevo la più pallida idea di cosa rispondere. Sembravamo ragazzini, ragazzini sconcertati. La Gorda aveva l’aria di un maestro di cerimonia nel più profondo imbarazzo.

Nestor si alzò e affrontò la Gorda. Le disse una frase in mazateco. Aveva il tono di un ordine o di un rimprovero.


« Dicci tutto quello che sai, Gorda » continuò in spagnolo. « Non hai nessun diritto di prenderci in giro, di tenere solo per te qualcosa di così importante. »

La Gorda protestò con foga. Spiegò che teneva per sé quello che sapeva perché Eligio le aveva chiesto di farlo. Josefina confermò con un cenno del capo.

« L’ha detto a te o a Josefina? » chiese Pablito.

« Eravamo insieme » disse la Gorda in un sussurro che si udì a malapena.

« Vuoi dire che tu e Josefina sognate insieme! » esclamò Pablito senza fiato.

Il tono di sorpresa della sua voce corrispondeva all’onda d’urto che sembrò propagarsi agli altri presenti.

« Che cosa ha detto esattamente Eligio a voi due? » chiese Nestor, quando l’impressione si fu calmata.

« Disse che dovevo cercare di aiutare il Nagual a ricordarsi del suo lato sinistro » rispose la Gorda.

« Sapete di che cosa stia parlando? » mi chiese Nestor. Era impossibile che lo sapessi. Dissi che dovevano cercare di trovare una risposta in se stessi. Ma nessuno avanzò alcun suggerimento.

« Lui disse a Josefina altre cose che non può ricordare » proseguì la Gorda. « Così siamo davvero in un bell’imbroglio. Eligio disse che è stabilito che tu sia il Nagual, e che ci debba aiutare; ma che tu non sei destinato a noi. Soltanto dopo esserti ricordato del tuo lato sinistro ci potrai portare dove dobbiamo andare. »

Nestor si rivolse a Josefina con tono paterno, e insistette perché lei cercasse di ricordare le parole di Eligio, invece di insistere che mi ricordassi io qualcosa che doveva essere stato trasmesso in una specie di codice indecifrabile, visto che nessuno di noi riusciva a cavarne un senso.

Josefina trasalì e aggrottò la fronte come se fosse oppressa da un grande peso. Sembrava proprio una bambola di pezza che venisse schiacciata. La guardavo affascinato.

« Non ci riesco » disse alla fine. « Capisco di che cosa mi sta parlando quando, si rivolge a me, ma ora non so dire cosa sia. Non mi viene fuori. »





« Ti ricordi qualche parola? » chiese Nestor. « Anche solo parole staccate? »

Tirò fuori la lingua, scosse la testa da una parte all’altra e urlò, tutto contemporaneamente.

« No, non ce la faccio » disse dopo un poco. « Che sorta di sogni fai, Josefina? » chiesi. « Gli unici che sappia fare » rispose sgarbata. « Io ti ho raccontato i miei » dissi. « Ora raccontami i tuoi. » « Chiudo gli occhi e vedo questo muro » disse. « E come un muro

di nebbia. È lì che Eligio mi aspetta. Mi conduce attraverso il muro e mi mostra delle case, credo. Non so cosa facciamo, ma facciamo qualcosa insieme. Poi mi riporta al muro e mi lascia andare. E io torno indietro e dimentico tutto quello che ho visto. »

« Come è che sei andata con la Gorda? » chiesi.

« Eligio mi disse di portarla » rispose. « L’aspettammo tutti e due, e quando lei cominciò a sognare la ghermimmo e la tirammo al di là di quel muro. L’abbiamo fatto due volte. »

« Come avete fatto a ghermirla? » chiesi.

« Non lo so! » rispose Josefina. « Ma aspetterò anche te e quando starai sognando ti ghermirò e allora lo saprai. »

« Puoi ghermire chiunque? » le chiesi.

« Certo » disse sorridendo. « Ma non lo faccio perché è uno spreco. Ho ghermito la Gorda perché Eligio le voleva dire qualcosa visto che lei ha molto più buon senso di me. »

« Allora Eligio deve aver detto anche a te le stesse cose, Gorda » disse Nestor in un tono fermo che non mi era familiare.

La Gorda fece gesti insoliti: abbassò il capo socchiudendo la bocca agli angoli, si strinse nelle spalle e alzò le braccia.

« Josefina ti ha appena detto cosa è successo » disse. « Non c’è modo di farmi ricordare. Eligio parla con una diversa velocità. Parla, ma il mio corpo non riesce a capirlo. No. No. Il mio corpo non riesce a ricordare, ecco cos’è. So che affermava che questo Nagual qui ricorderà, e ci porterà dove dobbiamo andare. Non ha potuto dirmi di più perché c’era tanto da dire e così poco tempo. Disse che qualcuno, e non mi ricordo chi, aspetta me in particolare. »

« È tutto quello che ha detto? » insistette Nestor.


« La seconda volta che lo vidi, mi disse che tutti noi dobbiamo ricordarci il nostro lato sinistro, prima o poi, se vogliamo arrivare dove dobbiamo andare. Ma lui è quello che deve cominciare per primo a ricordarsi. » Di nuovo indicò me, e mi diede un’altra spinta: l’impeto mi fece ruzzolare come una palla.

« Perché fai così, Gorda? » le chiesi, un po’ seccato.

« Cerco di aiutarti a ricordare » disse. « Il Nagual Juan Matus mi diceva che avrei dovuto darti uno spintone di tanto in tanto per scuoterti. »

La Gorda mi abbracciò con gesto brusco.

« Aiutaci, Nagual » mi implorò. « Saremo peggio che morti se non lo farai. »

Ero vicino alle lacrime. Non a causa del loro dilemma, ma perché sentivo qualcosa agitarsi dentro di me. Un qualcosa che stava cercando di farsi strada per uscire alla luce fin dalla visita in città.

La preghiera della Gorda mi spezzava il cuore. Proprio allora ebbi un altro attacco di quel che sembrava iperventilazione. Mi sentii addosso un sudore freddo ed ebbi un attacco di vomito. La Gorda si prese cura di me con estrema bontà.

Fedele al principio di aspettare a rivelare una scoperta, la Gorda non volle prendere in considerazione alcun accenno al nostro vedere insieme di Oaxaca. Per interi giorni se ne rimase appartata e intenzionalmente disinteressata. Non voleva neppur parlare del mio malore. E neanche le altre donne. Don Juan era solito sottolineare l’importanza di attendere il momento più adatto per liberarci di quello che avevamo dentro di noi. Capivo la meccanica del comportamento della Gorda, anche se trovavo quel suo insistere nell’attesa piuttosto irritante e in contrasto con le nostre necessità. Non potevo stare con loro troppo a lungo e quindi chiesi che ci riunissimo tutti, confidandoci quello che sapevamo. Lei fu inflessibile.

« Dobbiamo aspettare insistette. Dobbiamo dare ai nostri corpi l’opportunità di fornirci una soluzione. Il nostro compito è quello di ricordare, con il corpo, non con la mente. Tutti lo intendono in questo modo. »

Mi lanciò uno sguardo interrogativo. Sembrava aspettarsi un indizio che le rivelasse come anch’io avessi compreso questo compito.





Io ammisi di essere completamente confuso, in quanto mi sentivo estraneo. Ero solo, mentre loro avevano l’uno l’appoggio dell’altro.

« Questo è il silenzio dei guerrieri » mi disse la Gorda ridendo, e poi aggiunse in tono conciliante: « Questo silenzio non significa che non possiamo parlare di qualcosa d’altro. »

« Potremmo forse riprendere quella vecchia discussione sul perdere la forma umana proposi. »

Negli occhi le passò un lampo di irritazione. Le spiegai a lungo che, soprattutto quando si trattava di concetti nuovi, il significato delle cose mi doveva essere ripetuto più volte.

« Che cosa vuoi sapere con esattezza? » chiese. « Qualsiasi cosa tu voglia dirmi » risposi. « Il Nagual mi disse che perdere la forma umana porta alla

libertà. Io ci credo. Ma non ho ancora provato quella libertà. Non ancora. »

Vi fu un momento di silenzio. Lei stava ovviamente valutando la mia reazione.

« Che specie di libertà è, Gorda? » chiesi.

« La libertà di ricordare se stessi » disse. « Il Nagual diceva che perdere la forma umana è come una spirale. Ti dà la libertà di ricordare, e questo a sua volta ti rende ancora più libero.»

« Perché non hai ancora provato questa libertà? » chiesi.

Schioccò la lingua e si strinse nelle spalle. Sembrava confusa, o riluttante a proseguire la conversazione.

« Sono legata a te » disse. « Finché non perderai la tua forma umana per poter ricordare, non sarò in grado di sapere cosa sia questa libertà. Ma forse tu non sarai capace di perdere la forma umana se prima non saprai ricordare. Non dovremmo comunque tornare più su questo argomento. Perché non vai a parlare con i Genaros? »

Sembrava una madre che mandasse il figlio fuori a giocare. Non me la presi affatto. Con qualcun altro, avrei senz’altro giudicato quel modo di fare arrogante od oltraggioso. Mi piaceva stare con lei, e qui stava la differenza.

In casa di Genaro trovai Pablito, Nestor e Benigno intenti a uno strano gioco. Pablito penzolava appeso a circa un metro dal pavimento dentro qualcosa che sembrava una imbracatura di cuoio scuro, passata intorno al torace e sotto le ascelle. L’imbracatura sembrava un pesante


panciotto di cuoio. Guardando meglio mi accorsi che in effetti Pablito aveva i piedi infilati in grosse strisce che penzolavano dal- l’imbracatura come delle staffe. Era appeso al centro della stanza, legato con due funi a un grosso trave rotondo trasversale che sosteneva il tetto. Alle spalle di Pablito ogni fune era attaccata all’imbracatura, con un anello di metallo.

Nestor e Benigno reggevano una fune per ciascuno. Stavano in piedi l’uno di fronte all’altro, e tenevano Pablito a mezz’aria tirando. Pablito si aggrappava con tutte le sue forze a due lunghe e sottili aste piantate per terra e che poteva tenere comodamente strette con le mani. Nestor era a sinistra di Pablito, Benigno a destra.

Il gioco sembrava una prova di forza a tre, una violenta battaglia fra chi tirava e chi era sospeso.

Quando entrai nella stanza, tutto ciò che potevo sentire era il pesante respiro di Nestor e Benigno. Avevano i muscoli delle braccia e del collo gonfi per lo sforzo che facevano a tirare. Pablito li teneva d’occhio entrambi, concentrandosi su uno alla volta, con rapide occhiate. Erano tutti e tre così assorti nel gioco che non notarono neppure la mia presenza, o se lo fecero, non poterono permettersi di interrompere la concentrazione per salutarmi.

Nestor e Benigno si fissarono a vicenda per dieci o quindici minuti nel più profondo silenzio. Poi Nestor finse di mollare la sua fune: Benigno non gli credette, ma Pablito sì. Strinse ancor più la presa della sinistra e irrigidì i piedi sui sostegni per tenersi saldo. Benigno approfittò di quel momento per agire e diede un potente strattone nel preciso istante in cui Pablito allentava la presa.

Lo strappo di Benigno colse di sorpresa sia Pablito sia Nestor. Benigno tirò la fune con tutto il suo peso. Nestor fu preso alla sprovvista. Pablito lottò disperatamente per tenersi in equilibrio, ma fu inutile. Benigno vinse la mano.

Pablito si sbarazzò dell’imbracatura e mi si avvicinò. Gli posi qualche domanda su quel gioco fuor dal comune. Sembrava alquanto riluttante a rispondere. Nestor e Benigno ci raggiunsero, dopo aver messo via tutti gli attrezzi. Nestor disse che l’aveva inventato Pablito, dopo averne trovato lo schema in sogno, e l’aveva ricostruito come un gioco. All’inizio era solo un mezzo per rafforzare contemporaneamente i muscoli di due di loro. Facevano a turno a chi





dovesse essere sollevato. In seguito un sogno di Benigno aveva dato lo spunto per una modifica, modifica in cui erano in tre a tendere i muscoli e ad affinare la capacità visiva rimanendo in uno stato di all’erta, a volte per ore.

« Benigno pensa che ora stia aiutando i nostri corpi a ricordare » continuò Nestor. « La Gorda, per esempio, lo gioca in un suo modo bizzarro. Vince ogni volta, qualsiasi parte abbia. Benigno crede che sia perché il suo corpo ricorda. »

Chiesi se anche loro osservavano la regola del silenzio. Risero. Pablito disse che la Gorda desiderava più di ogni altra cosa diventare come il Nagual Juan Matus. Lo imitava di proposito, fin nei particolari più assurdi.

« Vuoi dire che possiamo parlare di quello che è successo l’altra notte? » chiesi, piuttosto sconcertato, poiché la Gorda era stata così categoricamente contraria.

« A noi non importa » disse Pablito. « Sei tu il Nagual! »

« Benigno ha ricordato qui qualcosa di tanto, ma tanto misterioso » disse Nestor evitando di guardarmi.

« Io penso che fosse un sogno confuso » disse Benigno. « Però Nestor non la pensa così. »

Attesi con impazienza. Con un cenno del capo li incoraggiai a proseguire.

« L’altro giorno ricordava che gli avevi insegnato a cercare impronte nel terriccio smosso » disse Nestor.

« Deve essere stato un sogno » dissi.

Mi venne da ridere a quella assurdità, ma tutti e tre mi guardavano con occhi supplichevoli.

« E assurdo » continuai.

« Comunque ora è meglio che ti dica che anch’io ho un ricordo simile » disse Nestor. « Mi hai condotto vicino a certe rocce e mi hai insegnato a nascondermi. Il mio, non era un sogno confuso. Ero sveglio. Un giorno stavo camminando con Benigno, in cerca di erbe, quando a un tratto mi ricordai quello che mi avevi insegnato, così mi nascosi come mi avevi detto e feci prendere uno spavento dell’accidenti a Benigno. »

« Io insegnato a te? Come può essere? E quando? » chiesi.


Incominciavo a innervosirmi. Non mi sembrava che stessero scherzando.

« Quando? Questo è il punto disse Nestor. « Non riusciamo a immaginarci quando, ma Benigno e io sappiamo che eri tu.»

Mi sentivo pesante, teso. Respiravo con difficoltà. Avevo paura di star male di nuovo. Decisi subito di raccontare loro quello che la Gorda e io avevamo visto insieme. Il parlarne mi calmò. Alla fine del mio racconto avevo ripreso il controllo di me.

« Il Nagual Juan Matus ci ha lasciati piuttosto aperti » disse Nestor. « Tutti noi possiamo vedere un po’. Vediamo i buchi nelle persone che hanno avuto figli, e vediamo anche, ogni tanto, una tenue luce addosso alla gente. Poiché tu non vedi in assoluto, sembra che il Nagual ti abbia lasciato completamente chiuso, in modo che tu possa aprirti da solo dall’interno. Ora, tu hai aiutato la Gorda e, o lei vede dall’interno, o sta solo facendo affidamento su dite. »

Dissi che quello che era successo a Oaxaca avrebbe potuto essere un colpo di fortuna.

Pablito disse che avremmo dovuto andare alla roccia favorita di Genaro, e sedervici sopra appoggiando le teste l’una all’altra. Gli altri due trovarono l’idea brillante; io non avevo obiezioni. Ma per quanto rimanessimo seduti a lungo, non accadde nulla. Comunque, ci sentimmo poi molto sollevati.

Mentre eravamo ancora lì seduti raccontai dei due uomini che la Gorda aveva creduto fossero don Juan e don Genaro. I tre si lasciarono scivolare giù e mi portarono di peso fino alla casa della Gorda. Nestor era il più agitato. Quasi non connetteva più. Tutto quello che riuscii a sapere era che loro stavano aspettando da tempo un segno del genere.

La Gorda ci aspettava sulla soglia. Capì quello che avevo raccontato loro.

« Volevo solo dar tempo al mio corpo » disse, prima che noi pronunciassimo una parola. « Dovevo essere assolutamente sicura, e ora lo sono. Erano il Nagual e Genaro. »

« Cosa c’era in quelle baracche? » chiese Nestor.

« Non ci sono entrati, loro » disse la Gorda. Si allontanarono verso l’aperta campagna, a est. In direzione di questa città. »





Sembrava che cercasse di placarli. Li invitò a rimanere; loro non volevano. Si scusarono e se ne andarono. Ero sicuro che si sentivano a disagio in sua presenza. Lei mi sembrava fuori di sé. Mi divertii quasi per la sua esplosione di collera, e questa reazione era proprio contraria al mio normale modo di fare. Mi ero sempre sentito irritato in presenza dell’agitazione altrui, con la misteriosa eccezione della Gorda.

Nelle prime ore della sera ci riunimmo in camera sua. Sem- bravano tutti preoccupati. Sedevano in silenzio, con gli occhi fissi al pavimento. La Gorda cercò di avviare la conversazione. Disse che non se ne era stata in ozio, che aveva collegato un fatto accanto all’altro, e ne aveva tratto qualche conclusione.

« Non è questione di mettere un fatto accanto all’altro » disse Nestor. Qui si tratta di ricordare con il corpo. »

A giudicare dai cenni di assenso che gli altri rivolgevano a Nestor, sembrava che ne avessero discusso fra loro. Questo metteva me e la Gorda da parte, quasi come estranei.

« Anche Lydia ricorda qualcosa » continuò Nestor. Credeva fosse la sua stupidità, ma dopo aver sentito quel che mi sono ricordato io, ci ha detto che questo Nagual qui la portò da un guaritore e ve la lasciò perché si curasse gli occhi. »

La Gorda e io ci voltammo verso Lydia. Abbassò il capo, come se fosse imbarazzata. Mormorò qualcosa. Il ricordo sembrava troppo doloroso per lei. Disse che quando don Juan la trovò per la prima volta, lei aveva una infezione agli occhi e non ci vedeva. Qualcuno la condusse, dopo un lungo viaggio in macchina, dal guaritore che la risanò. Era sempre stata convinta fosse stato don Juan, ma dopo aver sentito la mia voce si era resa conto che ero stato io a portarcela.

L’incongruenza di tali ricordi l’aveva tormentata fin dal nostro primo incontro.

« Le mie orecchie non mi mentono » aggiunse Lydia, dopo un lungo silenzio. « Sei stato tu a portarmi. »

« No! Impossibile! » urlai io.

Il mio corpo fu preso da un tremito incontrollabile. Forse quello che io chiamo il mio io razionale, incapace di controllare il resto della mia persona, si stava limitando a fare da spettatore. Una parte di me guardava, mentre un’altra tremava.


4

OLTRE I CONFINI DELL’AFFETTO

« Cosa ci sta succedendo, Gorda? chiesi dopo che gli altri se ne erano andati a casa.

« I nostri corpi stanno ricordando, ma non riesco a immaginare cosa » rispose.

« Credi a quello che dicono di ricordare Lydia, Nestor e Benigno?»

« Certo. Sono persone molto serie. Non dicono cose di questo genere per sfottere. »

« Ma quello che affermano è impossibile. Tu mi credi, Gorda, non è vero? »

« Credo che tu non ricordi, ma… »

Non finì. Mi venne vicino e cominciò a bisbigliarmi all’orecchio. Mi disse che c’era qualcosa che il Nagual Juan Matus le aveva fatto promettere di tenere per sé fino a quando non fossero maturati i tempi; un asso di briscola da usare in situazioni senza via di uscita. Aggiunse, con un sussurro drammatico, che il Nagual aveva previsto la loro nuova sistemazione, risultata dall’aver io portato Josefina a Tula perché stesse con Pablito. Disse che avevamo una debole probabilità di riuscire a formare un gruppo efficiente se avessimo seguito l’ordine naturale di tale sistemazione. La Gorda spiegò che da quando eravamo divisi a coppie formavamo un organismo vivente. Eravamo un serpente, un serpente a sonagli. Il serpente aveva quattro sezioni ed era diviso longitudinalmente in due metà, maschio e femmina. Disse che lei e io formavamo la prima sezione del serpente, la testa. Era una testa fredda, calcolatrice, velenosa. La seconda sezione, composta da Nestor e Lydia, era il cuore saldo e leale del serpente. La terza era il ventre — un ventre mutevole, lunatico, infido, costituito da Pablito e Josefina. E l’ultima sezione, la coda, dov erano i sonagli, era formata





dalla coppia che anche nella vita reale poteva far risonare per ore il suo dialetto tzotzil, Benigno e Rosa.

La Gorda si raddrizzò dalla posizione che aveva assunto per parlarmi all’orecchio. Mi sorrise e mi diede una pacca sulla schiena.

« Eligio pronunciò una parola che alla fine mi è tornata alla mente » continuò. « Anche Josefina è d’accordo che Eligio pronunciò molte e molte volte la parola “pista”. Stiamo per metterci in cammino su una pista! »

Senza darmi la possibilità di farle domande, disse che andava un po’ a dormire e poi avrebbe radunato tutti per metterci in viaggio.

Partimmo prima di mezzanotte, marciando sotto una brillante luce lunare. Gli altri all’inizio erano stati riluttanti, ma la Gorda con grande abilità aveva fatto loro la presunta descrizione del serpente di don Juan. Prima di partire, Lydia suggerì di portarci dietro delle provviste, in caso il viaggio risultasse lungo. La Gorda respinse il consiglio per il fatto che non avevamo alcuna idea sulla natura del viaggio. Riferì che il Nagual Juan Matus una volta le aveva indicato l’inizio di un sentiero, e le aveva detto che al momento giusto avremmo dovuto recarci in quel posto ad aspettare che il potere della pista ci si rivelasse. La Gorda aggiunse che non era un qualsiasi sentiero di capre, ma una linea naturale della terra che, aveva affermato il Nagual, ci avrebbe dato forza e sapienza se avessimo potuto seguirla e immedesimarci con essa.

Camminando seguivamo una guida mista. La Gorda forniva l’impulso, Nestor conosceva a fondo quel terreno. Lei ci condusse in un luogo fra le montagne. Allora subentrò Nestor, che individuò un sentiero. La nostra formazione era chiara: la testa procedeva per prima e gli altri si disponevano secondo lo schema anatomico del serpente: cuore, intestino e coda. Gli uomini stavano alla destra delle donne. Ogni coppia seguiva a poco più di un metro dalla precedente.

Marciavamo veloci e in silenzio, per quanto possibile. Per un po’ ci furono cani che abbaiavano; e, man mano che salivamo sulle montagne, restò solo il canto dei grilli.

Camminammo per un bel pezzo. Improvvisamente la Gorda si fermò e mi afferrò un braccio. Indicò qualcosa davanti a noi. A venti o trenta metri, proprio nel mezzo della pista, c’era la massiccia sagoma


di un uomo enorme, alto quasi tre metri. Bloccava il nostro cammino. Ci riunimmo in gruppo serrato, con gli occhi fissi su quella forma oscura. Quello non si mosse. Dopo un po’ Nestor avanzò da solo per alcuni passi verso di lui. Soltanto allora la figura si mosse. Venne verso di noi. Gigantesco com’era, si muoveva con agilità.

Nestor tornò indietro di corsa. Nel momento in cui ci raggiunse, l’uomo si fermò. La Gorda, coraggiosa, fece un passo verso di lui. L’uomo fece un passo verso di noi. Era evidente che se avessimo continuato ad avanzare, ci saremmo scontrati con il gigante. Non eravamo in grado di affrontarlo, chiunque fosse. Senza aspettare di dimostrano, presi io l’iniziativa, spinsi tutti indietro e li allontanai in fretta da quel luogo.

Prendemmo la strada del ritorno, verso la casa della Gorda, in assoluto silenzio. Impiegammo ore ad arrivarci. Eravamo profondamente esausti. Quando ci fummo seduti al sicuro nella sua camera, la Gorda parlò.

« Siamo condannati » mi disse. « Tu non hai voluto che proseguissimo. Quella cosa che abbiamo visto sulla pista è uno dei tuoi alleati, vero? Escono dai loro nascondigli quando tu li spingi fuori. »

Non risposi. Non c’era senso a protestare. Mi ricordavo delle innumerevoli occasioni in cui avevo creduto che don Juan e don Genaro fossero in combutta fra di loro. Pensavo che mentre don Juan mi parlava al buio, don Genaro si travestisse per spaventarmi, e don Juan insisteva che fosse un alleato. L’idea che esistessero alleati o esseri in libertà che sfuggivano alla nostra normale attenzione era stata troppo inverosimile per me. Ma ora ero giunto al punto di scoprire che gli alleati delle descrizioni di don Juan esistevano davvero; c’erano, come aveva detto, esseri in libertà nel mondo.

In uno scoppio di autoritarismo, raro in me nella vita normale, mi alzai e dissi alla Gorda e a tutti gli altri che avevo una proposta da fare, che potevano accettare o respingere. Se erano pronti a partire da lì, mi sarei volentieri assunto la responsabilità di condurli da qualche altra parte. Se non erano pronti, mi sarei sentito libero da ogni futuro impegno verso di loro.





Sentii un’ondata di ottimismo e di sicurezza. Nessuno disse una parola. Mi guardarono in silenzio, come se ognuno stesse soppesando fra sé e sé la mia dichiarazione.

« Quanto tempo vi serve per fare i bagagli? » chiesi;

« Non ne abbiamo » disse la Gorda. « Partiremo così come siamo. E possiamo farlo in questo stesso istante, se necessario. Ma se possiamo aspettare altri tre giorni, tutto andrà meglio per noi. »

« E le case che avete? » chiesi. « Se ne occuperà Soledad » rispose lei. Era la prima volta che veniva menzionato il nome di dona

Soledad dall’ultima volta che l’avevo vista. Ero così incuriosito che per un attimo mi dimenticai del dramma che stavamo vivendo. Mi sedetti. La Gorda esitava a rispondere alla mia domanda su dona Soledad. Nestor interloquì dicendo che dona Soledad era in giro, ma che nessuno di loro era molto al corrente della sua attività. Andava e veniva senza dirlo a nessuno, visto che si erano messi d’accordo che loro avrebbero badato a casa sua e viceversa. Dona Soledad sapeva che prima o poi se ne sarebbero dovuti andare, e s’era assunta lei il compito di fare tutto il necessario per sistemare la loro proprietà.

« Come l’avviserete? » chiesi.

« Ci penserà la Gorda » disse Nestor. « Noi non sappiamo dove sia. »

« Gorda, dov’è dona Soledad? » le chiesi. « E come diavolo faccio a saperlo, io? » mi rispose stizzita. « Ma sei tu quella che la chiama » disse Nestor. La Gorda mi guardò. Era uno sguardo inespressivo, eppure mi

fece rabbrividire. Riconoscevo quello sguardo, ma da dove veniva? Qualcosa mi si agitò nel profondo; il mio plesso solare aveva una rigidità che non avevo mai provato prima. Il diaframma sembrava che si spingesse in su da solo. Stavo chiedendomi se dovevo sdraiarmi, quando d’un tratto mi ritrovai in piedi.

« La Gorda non lo sa » dissi. « Solo io so dov’è. »

Furono tutti colpiti — io forse più di ogni altro. Avevo fatto quella dichiarazione senza alcun fondamento razionale. Ciò nonostante, mentre pronunciavo quelle parole, avevo avuto la perfetta convinzione di sapere dov’era. Era stato come un lampo che mi aveva attraversato la coscienza. Vidi una zona montagnosa con cime aride e


dirupate, un terreno scosceso, freddo e desolato. Appena ebbi parlato, il mio primo pensiero cosciente fu che dovevo aver visto quel paesag- gio al cinema, e che la tensione causata dalla compagnia di quelle persone doveva avermi provocato un collasso.

Mi scusai per averli ingannati in quel modo così grossolano, anche se involontario. Poi mi sedetti di nuovo.

« Vuoi dire che non sai perché l’hai detto? » mi chiese Nestor.

Aveva scelto le parole attentamente. Il modo naturale di rispondere, almeno da parte mia sarebbe stato: “Così, in fondo, tu non sai dov’è”. Spiegai loro che ero stato preso da una sensazione sconosciuta. Descrissi il paesaggio che avevo visto e la certezza che avevo avuto che dona Soledad si trovasse là.

« Questo ci capita molto spesso » disse Nestor.

Mi volsi alla Gorda, e lei annuì. Le chiesi una spiegazione. « Queste cose strane e confuse continuano a presentarsi alla nostra mente. Prova a chiedere a Lydia, o a Rosa, o a Josefina » mi rispose la Gorda.

Da quando si erano divisi nella nuova sistemazione, Lydia, Rosa e Josefina non mi avevano parlato molto. Si erano limitate a salutarmi, e a scambiare qualche parola sul cibo o sul tempo.

Lydia evitò di guardarmi. Mormorò che a volte pensava di ricordare strane cose.

« Alle volte posso veramente odiarti mi disse. Penso che tu faccia finta di essere stupido. Poi mi ricordo che sei stato molto male a causa nostra. Eri tu? »

Certo che era lui disse Rosa. « Anch’io mi ricordo alcune cose. Mi ricordo di una signora che fu gentile con me. Mi insegnò a tenermi pulita, e questo Nagual mi tagliò i capelli per la prima volta, mentre la signora mi teneva, perché ero terrorizzata. Mi voleva bene, lei. Mi abbracciava spesso. Era molto alta. Ricordo che il mio viso le arrivava al petto, quando mi abbracciava. E stata l’unica persona che si sia mai occupata di me. Per lei avrei affrontato volentieri la morte. »

« Chi era quella signora, Rosa? » chiese la Gorda col fiato sospeso.

Rosa mi indicò con un gesto del mento, un gesto pieno di delusione e di disprezzo.

« Lui lo sa disse. »





Tutti mi guardarono, in attesa di una risposta. Mi irritai e gridai a Rosa che non aveva il diritto di fare delle affermazioni che in realtà erano accuse. Io non stavo in alcun modo mentendo.

Rosa non rimase scossa dal mio sfogo. Mi spiegò con calma di ricordarsi che la signora aveva detto che un giorno o l’altro sarei tornato, quando mi fossi rimesso in salute. Rosa credeva che la signora mi stesse assistendo e curando; quindi, poiché ormai sembravo guarito, io dovevo per forza sapere chi fosse e dove abitasse.

« Che tipo di malattia ho avuto? » chiesi a Rosa.

« Ti sei ammalato perché non potevi trattenere il tuo mondo » rispose con profonda convinzione. « Qualcuno mi ha detto, credo molto, molto tempo fa, che tu non eri destinato a noi, proprio come Eligio aveva anticipato alla Gorda in sogno. Per questo ci hai lasciati e Lydia non ti ha mai perdonato. Ti odierà anche oltre questo mondo. »

Lydia protestò che i suoi sentimenti per me non avevano nulla a che fare con quello che raccontava Rosa. Aveva solo poca pazienza e si irritava facilmente alle mie stupidità.

Chiesi a Josefina se anche lei si ricordasse di me.

« Certo » disse con una smorfia. « Ma tu mi conosci, sono matta. Non puoi fare affidamento su di me. Non sono fidata. »

La Gorda insistette per sentire cosa si ricordasse Josefina. Josefina aveva deciso di non dire nulla e si misero a rimbeccarsi. Alla fine Josefina mi parlò.

« A cosa servono tutte queste chiacchiere sui ricordi? Sono solo chiacchiere, e non valgono un fico » disse.

Josefina sembrava aver segnato un punto contro tutti noi. Non c’era nulla da aggiungere. Dopo un educato silenzio di qualche minuto stavano per alzarsi e andarsene.

« Ricordo che mi hai comperato dei bei vestiti » mi disse Josefina. « Non ti ricordi quando sono caduta dalle scale di quel negozio? Mi sono quasi rotta una gamba, e mi hai dovuto portare fuori in braccio. »

Si risedettero tutti, con gli occhi fissi su Josefina.

« Ricordo anche una strana donna » continuò. « Voleva pic- chiarmi e mi inseguiva dappertutto finché tu non ti arrabbiasti e la fermasti. »


Mi sentivo esasperato. Tutti sembravano pendere dalle labbra di Josefina, mentre lei stessa ci aveva detto di non fidarci perché era matta. Aveva ragione. I suoi ricordi per me erano pure aberrazioni.

« So anche perché ti sei ammalato » continuò. « Ero lì, ma non ricordo dove. Ti portarono al di là di quel muro di nebbia per trovare questa stupida della Gorda. Penso che si fosse persa. Tu non riuscivi a tornare indietro. Quando vi portarono fuori eri mezzo morto. »

Il silenzio che seguì alla sua rivelazione era opprimente. Avevo paura di fare qualsiasi domanda.

« Non riesco a ricordare perché diavolo lei sia mai andata là dietro, o chi ti abbia riportato a casa » continuò Josefina. « Che tu eri ammalato me lo ricordo, e che non mi riconoscevi più. Questa stupida Gorda giura che non ti conosceva quando venisti per la prima volta in questa casa alcuni mesi fa. Io ti riconobbi subito. Mi ricordai che eri il Nagual che si era ammalato. Vuoi sapere una cosa? Credo che queste donne se la prendano comoda. E anche gli uomini, soprattutto quello stupido di Pablito. Invece devono ricordarsi, c’erano anche loro, là. »

« Ti puoi ricordare dove eravamo? » chiesi.

« No, non ci riesco » disse Josefina. « Ma riconoscerei il posto, se mi ci portassi. Quando eravamo tutti là, ci chiamavano gli ubriaconi, perché eravamo tutti intontiti. Io ero la meno stordita, così mi ricordo abbastanza bene. »

« Chi ci chiamava ubriaconi? » chiesi.

« Non te, solo noi » disse Josefina. « Non so chi. Il Nagual Juan Matus, penso. »

Li fissai, e ciascuno evitò il mio sguardo.

« Stiamo arrivando alla fine » mormorò Nestor, come parlando a se stesso. « La nostra fine ci sta fissando dritto negli occhi. »

Sembrava sul punto di mettersi a piangere.

« Dovrei essere contento e orgoglioso di essere arrivato alla fine » continuò. « Invece sono triste. Come lo spieghi, Nagual ? »

Di colpo erano diventati tutti tristi. Anche la baldanzosa Lydia era triste.

« Cosa vi succede? » chiesi in tono gioviale. « Di che fine state parlando? »

« Credo che ciascuno sappia di che fine si tratta » disse Nestor. « In questi ultimi tempi ho avuto strani presentimenti. Qualcosa ci sta





chiamando. E noi non ci lasciamo andare come dovremmo. Restiamo abbarbicati. »

Pablito ebbe un momento di vera galanteria e disse che la Gorda era l’unica fra loro che non provava attaccamento per nulla. Il resto di loro, insistè, erano praticamente egoisti senza speranza.

« Il Nagual Juan Matus disse che quando sarà tempo di andare ci verrà dato un segno » disse Nestor. « Qualcosa che ci piace moltissimo si farà avanti a prenderci.

« Disse che non dovrà essere per forza importante’ aggiunse Benigno. « Ne basterà una cosa qualsiasi, ma che ci piaccia. »

« Per me questo segno prenderà la forma dei soldatini di piombo che non ho mai avuti » mi disse Benigno. « A prendermi verrà una fila di ussari a cavallo. E tu? »

Mi ricordai che don Juan una volta mi aveva detto che la morte può essere nascosta dietro qualsiasi cosa, anche dietro un puntino sul mio block notes. Mi aveva dato allora la definitiva metafora della mia morte. Gli avevo raccontato che una volta, passeggiando lungo l’Hollywood Boulevard a Los Angeles, avevo sentito una tromba che suonava una vecchia e insulsa canzoncina. La musica veniva da un negozio di dischi sull’altro lato della strada. Non avevo mai sentito un suono più bello. Ne fui rapito. Dovetti sedermi sul cordone del marciapiedi. Il limpido suono metallico della tromba mi penetrava direttamente nel cervello. Lo sentivo proprio sopra la mia tempia destra. Mi blandì fino a farmene ubriacare. Quando finì, seppi che non ci sarebbe mai stato modo di ripetere quella esperienza, ed ebbi abbastanza buon senso da non precipitarmi nel negozio a comprare il disco e lo stereo su cui sentirlo.

Don Juan disse che era stato un segno inviatomi dai poteri che governano il destino degli uomini. Quando giungerà il mio tempo di lasciare il mondo, in qualsiasi modo, udrò lo stesso suono di tromba, lo stesso motivetto insulso, lo stesso suonatore senza pari.

L’indomani fu per loro una giornata frenetica. Sembrava che avessero un numero infinito di cose da fare. La Gorda disse che i loro compiti erano personali e ciascuno doveva fare i suoi, senza aiuto. Fui contento di rimanere solo. Anch’io avevo delle cose da fare. Presi la macchina e mi recai nella città vicina dove mi era capitato tutto quello


scombussolamento. Andai diritto alla casa che aveva tanto affascinato la Gorda e me; bussai alla porta. Venne ad aprire una signora. Mi in- ventai la storia che avevo abitato in quella casa da bambino e volevo rivederla ancora. Era una donna molto gentile. Mi lasciò visitare la casa, sprofondandosi in mille scuse per un inesistente disordine.

In quella casa c’era una profusione di memorie nascoste. Erano lì, potevo sentirle, ma non riuscivo a ricordare nulla.

Il giorno seguente la Gorda uscì all’alba; pensavo che sarebbe stata fuori tutto il giorno, ma tornò a mezzogiorno. Sembrava molto turbata.

« Soledad è tornata e vuole vederti » mi disse seccamente.

Senza una parola di spiegazione mi portò a casa di dona Soledad. Dona Soledad era in piedi sulla soglia. Sembrava più giovane e più forte dell’ultima volta che l’avevo vista. Aveva solo una debolissima somiglianza con la donna che avevo conosciuto anni prima.

La Gorda sembrava sul punto di mettersi a piangere. La tensione da cui eravamo pervasi mi faceva comprendere perfettamente il suo stato d’animo. Se ne andò senza una parola.

Dona Soledad disse che aveva poco tempo per parlarmi, e che ne avrebbe utilizzato ogni secondo. Era deferente e non me l’aspettavo. C’era un tono di cortesia in ogni sua parola.

Feci un gesto per interromperla e porle una domanda. Volevo chiederle dove era stata. Rifiutò di rispondermi, in modo molto garbato. Disse che aveva scelto con cura le parole, e la mancanza di tempo le permetteva solo di dire l’essenziale.

Mi fissò negli occhi per un momento che mi sembrò inna- turalmente lungo. Questo mi diede fastidio. Avrebbe potuto, nello stesso lasso di tempo, parlarmi e rispondere a qualche mia domanda. Ruppe il silenzio dicendo cose per me assurde. Disse che mi aveva attaccato come le avevo chiesto di fare il giorno in cui avevamo oltrepassato per la prima volta le linee parallele, e che sperava che il suo attacco fosse stato efficace e fosse servito allo scopo. Volevo gridare che non le avevo mai chiesto di fare una cosa del genere. Non sapevo nulla di linee parallele, e quello che mi diceva era privo di senso. Mi chiuse le labbra con la mano. D’istinto indietreggiai. Sem- brava triste. Disse che non c’era modo di parlarci, perché in quel





momento eravamo su due linee parallele e nessuno di noi aveva l’energia di attraversarle; solo con gli occhi poteva mostrarmi il suo stato d’animo.

Incominciai, senza nessuna ragione, a sentirmi più sollevato, qualcosa in me si trovava a suo agio. Mi accorsi che le lacrime mi stavano scorrendo lungo le guance. E allora una sensazione incredibile mi assalì per un istante, un momento breve ma lungo abbastanza per scuotere le basi della mia coscienza, o della mia persona, o di quello che penso e che sento come il mio io. Per questo breve istante seppi che eravamo molto vicini come propositi e temperamento. Le nostre condizioni erano simili. Volevo dichiararle che era stata una lotta difficile, ma che non era ancora finita. Non sarebbe finita mai. Mi stava dicendo addio, poiché, da quella guerriera impeccabile che era, sapeva che le nostre strade non si sarebbero più incrociate. Eravamo giunti al termine di una pista. Un sentimento perduto di affinità spuntò da qualche inimmaginabile e oscuro angolo del mio io. Quel lampo fu per me come una scarica elettrica. L’abbracciai; le labbra mi si muo- vevano, articolando parole che per me non avevano alcun significato. Le si accese lo sguardo. Diceva anche lei qualcosa di incomprensibile. L’unica chiara sensazione che avevo, di aver passato le linee parallele, era priva di ogni significato pragmatico. Dentro di me s’era formata un’angoscia prorompente. Una forza inesplicabile mi stava spezzando in due. Non riuscivo a respirare, e tutto divenne buio.

Sentii che qualcuno mi muoveva e mi scuoteva con tocco lieve. Misi a fuoco il viso della Gorda. Ero sdraiato sul letto di dona Soledad e la Gorda mi era seduta accanto. Eravamo soli.

« Dov’è? » chiesi. « Se n’è andata » rispose la Gorda. Volevo raccontare tutto, alla Gorda. Lei mi fermò. Aprì la porta.

Gli apprendisti erano fuori ad aspettarmi. Avevano indossato abiti sbrindellati. La Gorda mi spiegò che avevano lacerato tutto quello che avevano. Era tardo pomeriggio. Avevo dormito per delle ore. Senza parlare andammo fino alla casa della Gorda, dove avevo parcheggiato la macchina. Ci si ammucchiarono dentro come dei ragazzi in gita domenicale.


Prima di salire in macchina mi fermai a dare uno sguardo alla vallata. Il mio corpo si girò lentamente e fece una rotazione completa, come se avesse una volontà propria. Sentivo che stavo raccogliendo l’essenza di quel luogo. Volevo portarla con me perché sapevo senza alcun dubbio che non l’avrei rivisto mai più in questa vita.

Gli altri dovevano avere già fatto la stessa cosa. Erano liberi da ogni malinconia, ridevano, si prendevano gioco l’un dell’altro.

Misi in moto e partii. Quando fummo all’ultima curva della strada il sole stava tramontando, e la Gorda mi gridò di fermarmi. Scese e corse a una piccola altura al lato della strada. Vi si arrampicò e diede un ultimo sguardo alla valle. Stese le braccia in quella direzione. Con un profondo sospiro raccolse tutto dentro di sé.

La discesa da quella montagna fu stranamente breve e assolutamente tranquilla. Erano tutti silenziosi. Cercai di trascinare la Gorda in una conversazione, ma rifiutò brusca. Disse che le montagne, che erano possessive, rivendicavano un diritto su di loro, e che se non avessero risparmiato energie, le montagne non li avrebbero mai lasciati andare.

Giunti in pianura si animarono di più, soprattutto la Gorda. Sembrava scoppiare di energia. Mi diede perfino delle notizie senza alcuna sollecitazione da parte mia. Secondo lei il Nagual Juan Matus le aveva detto, e Soledad aveva confermato, che c’era in noi un altro lato. All’udirla, gli altri si unirono alla conversazione con domande e commenti. Erano sconcertati dai loro strani ricordi di avvenimenti che secondo la logica non potevano avere mai avuto luogo. Poiché alcuni di loro mi avevano visto per la prima volta solo alcuni mesi prima, il ricordarsi di me in un remoto passato restava qualcosa che superava ogni limite della ragione.

Così riferii loro il mio incontro con dona Soledad. Descrissi la sensazione di conoscerla già bene, e l’impressione di aver attraversato insieme quel che lei chiamava le linee parallele. Reagirono in modo confuso alle mie parole; sembrava che avessero udito prima quell’espressione, ma non ero sicuro ne conoscessero il significato. Per me era una metafora. Non potevo garantire che fosse lo stesso per loro.

Quando stavamo arrivando a Oaxaca, mi espressero il desiderio di visitare il luogo dove la Gorda aveva detto che erano spariti don Juan





e don Genaro. Guidai direttamente fin lì. Si buttarono fuori dalla macchina e sembrò che si orientassero, annusando qualcosa, cercando degli indizi. La Gorda puntò nella direzione in cui lei riteneva fossero andati.

« Hai fatto un errore terribile, Gorda » disse Nestor ad alta voce. « Quello non è l’est, è il nord. »

La Gorda protestò e difese la sua opinione. Le donne la spalleggiarono, e anche Pablito. Benigno non si compromise; continuava a fissarmi come se aspettasse che io fornissi la risposta, e infatti fu così. Consultai una pianta di Oaxaca che avevo in macchina. La direzione indicata dalla Gorda era proprio il nord.

Nestor fece notare che aveva avuto sempre la sensazione che la partenza dalla loro città non fosse prematura, o in qualche modo forzata; era il momento giusto. Ma gli altri non la pensavano così, e la loro esitazione nasceva dall’errore della Gorda. Avevano creduto, come lei appunto, che il Naguai avesse indicato la loro città, volendo dire che non si dovessero muovere di lì. Ammisi, ripensandoci, che in ultima analisi la colpa era mia, perché, pur avendo la pianta, quella volta non l’avevo usata.

Accennai allora al fatto che mi ero dimenticato di dire loro che uno degli uomini, quello che per un momento avevo ritenuto fosse don Genaro, ci aveva fatto un cenno con il capo. La Gorda spalancò gli occhi, con genuina sorpresa, o addirittura allarmata. Non si era accorta del gesto, disse. Il cenno era diretto solo a me.

« Ecco! esclamò Nestor. « Il nostro destino è deciso! »

Si girò per rivolgersi agli altri. Stavano parlando tutti in una volta. Agitò freneticamente le mani per calmarli.

« Spero solo che ciascuno di noi abbia fatto quello che doveva fare, come se non dovesse ritornare mai » disse. « Perché non ritorneremo più indietro. »

« Ci stai dicendo la verità? » mi chiese Lydia con uno sguardo fiero negli occhi, mentre gli altri mi sembravano speranzosi.

Garantii che non avevo ragione di inventarmelo. L’aver visto un uomo che mi faceva un cenno con il capo non aveva alcun significato per me. Inoltre, non ero neppure convinto che quelli fossero don Juan e don Genaro.


« Sei molto astuto » disse Lydia. « Magari ci dici questo in modo che ti seguiamo buoni buoni. »

« Ora, aspettate un attimo » disse la Gorda. « Questo Nagual può essere astuto quanto volete, ma non farebbe mai una cosa simile. »

Si rimisero a vociare tutti insieme. Cercai di fare da paciere e dovetti alzar la voce più di loro per dire che non faceva comunque differenza quello che avevo visto.

Nestor spiegò con molta cortesia come Genaro avesse detto loro che quando fosse giunto il tempo di lasciare la vallata glielo avrebbe fatto in qualche modo sapere con un cenno del capo. Si calmarono quando dissi loro che se questo aveva segnato il loro destino, aveva segnato anche il mio; così saremmo andati tutti a nord.

Nestor allora ci condusse in un posto per sistemarci, una pensione dove scendeva quando doveva sbrigare qualche affare in città. Erano tutti pieni di entusiasmo, troppo per me. Perfino Lydia mi abbracciò, scusandosi per aver fatto la difficile. Mi spiegò che aveva creduto alla Gorda e quindi non si era preoccupata di tagliare davvero ogni suo legame. Josefina e Rosa erano euforiche e continuavano a darmi manate sulla schiena. Volevo parlare con la Gorda. Dovevo discutere il corso delle nostre azioni. Ma quella notte non mi fu dato modo di rimanere solo con lei.

Nestor, Pablito e Benigno uscirono di primo mattino per commissioni. Anche Lydia, Rosa e Josefina andarono a fare spese. La Gorda mi chiese di aiutarla a comperare i suoi nuovi vestiti. Voleva che scegliessi un abito per lei, l’abito perfetto che le desse la sicurezza necessaria per essere una guerriera senza forma. Le trovai non solo un abito, ma tutto il necessario, scarpe, calze e biancheria.

La portai a fare un giro. Vagammo per il centro della città come due turisti, fissando gli indios nei loro costumi regionali. Essendo un guerriero senza forma, si trovava già perfettamente a suo agio nell’abito elegante. Era splendida. Come se non si fosse mai vestita in altro modo. Ero io che non riuscivo ad abituarmici.

Le domande che volevo fare alla Gorda, e che avrebbero dovuto sgorgarmi fuori, non riuscivo a formularle. Non avevo idea di cosa chiederle. Con assoluta serietà le dissi che il suo nuovo aspetto aveva





fatto colpo su di me. Mi rispose semplicemente che quello che mi aveva colpito era l’aver superato i confini.

« Noi abbiamo passato certi confini la notte scorsa » disse. « Soledad mi aveva detto cosa dovessi aspettarmi, così ero preparata. Ma tu non lo eri. »

Cominciò a spiegarmi adagio e a bassa voce che la notte prima noi avevamo oltrepassato certi confini dell’affetto. Sillabava ogni parola, come se parlasse a un bambino o a uno straniero. Ma non riuscivo a concentrarmi. Tornammo al nostro alloggio. Avevo bisogno di riposo, eppure finii con l’uscire di nuovo. Lydia, Rosa e Josefina non erano riuscite a trovare nulla, e volevano qualcosa di simile al completo della Gorda.

A metà pomeriggio tornai alla pensione ad ammirare le sorelline. Rosa aveva una certa difficoltà a camminare con i tacchi alti. Stavano scherzando sui suoi piedi, quando la porta si spalancò e Nestor fece un ingresso drammatico. Indossava un abito blu scuro di buon taglio, camicia rosa pallido e cravatta blu. Aveva i capelli accuratamente pettinati e un po’ gonfi, come se glieli avessero asciugati con il phon. Guardò le donne, e le donne guardarono lui. Entrò Pablito seguito da Benigno. Erano tutti e due molto azzimati. Avevano scarpe nuove di zecca e gli abiti sembravano fatti su misura.

Non riuscivo a superare lo shock per come tutti s’erano adattati agli abiti da città. Mi ricordavano tanto don Juan. Ero forse altrettanto colpito dalla vista dei tre Genaros in abiti cittadini di quanto lo ero stato vedendo don Juan con un completo addosso, tuttavia accettai il loro cambiamento. D’altra parte, mentre non ero sorpreso dalla trasformazione delle donne, per una qualche ragione non riuscivo ad abituarmici.

Pensai che i Genaros dovessero aver avuto un colpo di fortuna stregonesca per trovare delle misure così perfette. Risero sentendomi vaneggiare di fortuna. Nestor disse che gli abiti erano stati confezionati da un sarto mesi prima.

« Ognuno di noi ha un altro abito » mi disse. « Abbiamo perfino delle valigie di cuoio. Sapevamo che il nostro soggiorno fra queste montagne era finito. Siamo pronti a partire! Però devi prima dirci per dove. E anche per quanto tempo ancora dobbiamo stare qui. »


Mi disse che aveva ancora dei vecchi conti in sospeso da chiudere, e gli occorreva tempo. La Gorda si fece avanti e dichiarò, con aria sicura e autoritaria, che saremmo partiti quella notte stessa e saremmo andati lontano quanto l’avrebbe permesso il potere; quindi avevamo tempo fino a sera per sistemare gli affari. Nestor e Pablito esitavano vicino alla porta. Mi guardarono, in attesa di una conferma. Pensai che il minimo che potessi fare era di essere onesto con loro, ma la Gorda mi interruppe per dire che ero le mille miglia lontano dal sapere che cosa dovessimo fare con esattezza.

« Ci incontreremo alla panchina del Nagual verso sera » disse. « Partiremo da lì. Fino ad allora, faremo qualsiasi cosa che dobbiamo o vogliamo fare, sapendo che in questa vita non torneremo più qui. »

Quando tutti furono usciti, la Gorda e io rimanemmo soli. Con un movimento brusco e maldestro mi si sedette sulle ginocchia. Era così leggera, che potevo farle vibrare il corpo sottile contraendo i muscoli dei polpacci. I suoi capelli avevano un particolare profumo. Dissi per scherzo che era un odore insopportabile. Stava ridendo e vibrando, quando mi assalì improvvisa una sensazione — un ricordo? Tutto a un tratto tenevo un’altra Gorda sulle ginocchia, grassa, grassa due volte la Gorda che conoscevo. Aveva la faccia tonda, e io stavo scherzando sul profumo dei suoi capelli. Avevo l’impressione che stessi curandola.

L’impatto di questo ingannevole ricordo mi fece balzare in piedi. La Gorda cadde rumorosamente sul pavimento. Le descrissi quello che avevo « ricordato». Le dissi che l’avevo vista grassa solo una volta, e per un tempo così breve che non mi ero fatto un’idea della sua fisionomia, e tuttavia avevo appena avuto la visione del viso di quando era grassa.

Non fece alcun commento. Si spogliò e indossò di nuovo i suoi vecchi abiti.

« Non sono ancora pronta a indossarli » disse, indicando gli indumenti nuovi. « Abbiamo un’altra cosa ancora da fare prima di essere liberi. Secondo le istruzioni del Nagual Juan Matus, dobbiamo sederci tutti insieme in un luogo di potere di sua scelta. »

« Dov’è questo posto? »





« Da qualche parte sulle montagne, qui intorno. È come una porta. Il Nagual mi disse che c’era una spaccatura naturale. Disse che alcuni luoghi di potere sono buchi di questo mondo; se uno è senza forma, può passarci attraverso ed entrare nell’ignoto, in un altro mondo. Quel mondo, e questo in cui viviamo, sono su due linee parallele. È possibile che tutti noi prima o poi siamo stati portati attraverso quelle linee, ma non ce ne ricordiamo. Eligio è in quell’altro mondo. Alle volte ci arriviamo sognando. Naturalmente la migliore sognatrice di tutti noi è Josefina. Attraversa le linee ogni giorno, ma è matta e questo la rende indifferente, perfino stupida, quindi Eligio ha aiutato me a passare le linee pensando che io fossi più intelligente, ma anch’io sono risultata altrettanto stupida. Eligio vuole che ci ricordiamo il nostro lato sinistro. Soledad mi disse che il lato sinistro è la linea parallela a quella nella quale stiamo vivendo ora. Così se lui vuole che lo ricordiamo, è perché dobbiamo esserci stati. E non in sogno. Ecco perché di tanto in tanto tutti ci ricordiamo cose bizzarre. »

Viste le premesse su cui si basava, le sue erano conclusioni logiche. Sapevo di cosa parlava; quei ricordi occasionali e spontanei lasciavano trapelare la realtà della vita di ogni giorno e tuttavia non era possibile ordinarli in una sequenza temporale, o trovare uno spazio nelle nostre vite che si adattasse loro.

La Gorda si stese sul letto. Nei suoi occhi c’era uno sguardo preoccupato.

« Quello che mi angoscia è come trovare quel luogo di potere » disse. « Senza, non c’è possibilità di metterci in viaggio. »

« Quello che preoccupa me, è scoprire dove devo portarvi e cosa devo fare di tutti voi » dissi.

« Soledad mi disse che saremmo andati a nord fino al confine » disse la Gorda. « Alcuni di noi forse ancora più a nord. Ma tu non farai tutto il viaggio con noi. Tu hai un altro destino. »

La Gorda rimase per un po’ soprappensiero. Corrugò la fronte per lo sforzo evidente di mettere ordine alle proprie idee.

« Soledad disse che tu mi porterai ad adempiere al mio destino » disse la Gorda. « Io sono l’unica del gruppo che ti sia stata affidata. »


Una espressione allarmata doveva essermisi diffusa sul viso. Lei sorrise.

« Soledad mi disse anche che tu sei tappato » continuò la Gorda. « Ci sono tuttavia dei momenti in cui diventi un autentico Nagual. Per il resto, dice Soledad, sei come un pazzo, che diventa lucido solo per alcuni istanti e poi torna indietro alla sua follia. »

Dona Soledad aveva trovato un’immagine adatta a descrivermi, un’immagine che riuscivo a comprendere. Dovevo aver avuto un momento di lucidità per lei quando mi accorsi di aver passato le linee parallele. Quello stesso momento, secondo il mio normale modo di vedere, era stato il più assurdo di tutti. Doiìa Soledad e io eravamo certo su due diverse linee di pensiero.

« Cosa ti ha detto ancora? » chiesi.

« Che dovrei sforzarmi di ricordare » rispose la Gorda. « Si sfinì cercando di portare a galla la mia memoria; ecco perché non ha potuto occuparsi di te. »

La Gorda si alzò: era pronta a uscire. La portai a fare una passeggiata in città. Sembrava felicissima. Andava da un posto all’altro osservando ogni cosa, beandosi lo sguardo dello spettacolo del mondo. Questa immagine me l’aveva fornita don Juan. Mi diceva che un guerriero sa di essere in attesa, sa anche di che cosa è in attesa, e mentre attende si bea gli occhi con lo spettacolo del mondo. Secondo lui la perfezione suprema per un guerriero era la gioia. Quel giorno, a Oaxaca, la Gorda seguiva alla lettera l’insegnamento di don Juan.

Nel tardo pomeriggio, prima del tramonto, ci sedemmo sulla panchina di don Juan. I primi ad arrivare furono Benigno, Pablito e Josefina. Pochi minuti dopo fummo raggiunti dagli altri tre. Pablito si sedette tra Josefina e Lydia cingendole con le braccia. S’erano rimessi i vecchi abiti. La Gorda si alzò e incominciò a dir loro del luogo di potere.

Nestor rise alle sue parole e gli altri lo imitarono.

Non ci farai mai più cadere sotto la tua prepotenza disse Nestor. « Ci siamo liberati dite. Abbiamo passato i confini l’altra notte. »

La Gorda rimase serena, ma gli altri erano irritati. Dovetti intervenire. Dissi ad alta voce che volevo sapere di più sui confini che





avevano oltrepassato la notte prima. Nestor spiegò che era una cosa che riguardava solo loro. La Gorda non la pensava così. Sembravano sul punto di litigare. Tirai da parte Nestor e gli ordinai di parlarmi dei confini.

« I nostri sentimenti creano confini dovunque » disse. « Più affetto proviamo, più invalicabile diventa questo confine. In questo caso noi amavamo la nostra dimora; prima di partire dovemmo sollevare i nostri sentimenti. L’affezione per la nostra casa salì fino alla cima delle montagne a occidente della valle. Quella era la frontiera; e quando abbiamo attraversato il crinale di quelle montagne, sapendo che non saremmo più tornati indietro, l’abbiamo infranto. »

« Ma anch’io sapevo che non sarei più tornato indietro » dissi. « Tu non amavi quelle montagne come noi » rispose Nestor. « Resta ancora da vedere » osservò ambiguamente la Gorda. « Eravamo sotto la sua influenza » disse Pablito, alzandosi e

indicando la Gorda. « Ci teneva per la collottola. Mi accorgo ora di quanto siamo stati stupidi per colpa sua. Non possiamo piangere sul latte versato, ma non ci cascheremo più. »

Lydia e Josefina si unirono a Nestor e Pablito. Benigno e Rosa stavano a guardare come se la disputa non li riguardasse più.

Proprio allora ebbi un altro momento di sicurezza e di autorità. Mi alzai e, senza una decisione cosciente, annunciai che avrei preso io la direzione e che esoneravo la Gorda da ogni ulteriore obbligo di fare commenti o di presentare le proprie idee come l’unica soluzione. Quando finii di parlare rimasi colpito dal mio coraggio. Tutti, compresa la Gorda, ne furono contenti.

La frase che sosteneva la mia esplosione era stata prima una sensazione fisica che le cavità frontali mi si stessero aprendo, poi la certezza di aver capito cosa avesse voluto dire don Juan, e dove fosse il posto che dovevamo visitare prima di essere liberi. Mentre mi si aprivano le cavità frontali, avevo avuto una visione di quella casa che tanto mi aveva affascinato.

Dissi loro dove dovevamo andare. Accettarono le mie indicazioni senza discutere o fare commenti. Pagammo l’alloggio e andammo fuori a cena. Poi ce ne stemmo a zonzo per la piazza fino alle undici circa. Portai lì la macchina, vi si ammucchiarono rumorosamente, e


partimmo. La Gorda rimase sveglia a tenermi compagnia, mentre gli altri si addormentarono; poi guidò Nestor e la Gorda e io dormimmo.





5

UN’ORDA DI STREGONI INFEROCITI

Giungemmo in città allo spuntare dell’alba. A questo punto presi io il volante e guidai fino alla casa. Un paio di isolati prima, la Gorda mi chiese di fermarmi. Scese dalla macchina e incominciò a camminare sull’alto marciapiedi. Uno alla volta scesero tutti. Seguirono la Gorda. Pablito mi si sedette a lato e mi disse di parcheggiare nella plaza, che distava un isolato. Così feci.

Quando vidi la Gorda girare l’angolo, mi accorsi che qualcosa non andava. Era straordinariamente pallida. Mi si avvicinò e mi disse in un bisbiglio che sarebbe andata a sentire la prima messa. E così pure Lydia. Tutt’e due attraversarono la plaza ed entrarono in chiesa.

Pablito, Nestor e Benigno erano cupi come non li avevo mai visti. Rosa era terrorizzata, con la bocca aperta, gli occhi fissi e sgranati in direzione della casa. Solo Josefina era raggiante. Mi diede una amichevole pacca sulla schiena.

« Ce l’hai fatta, canaglia! » esclamò. « Gli hai messo addosso una strizza della madonna, a questi figli di puttana! »

Rise fino a rimaner senza fiato. « È questo il posto, Josefina? » chiesi. « Certo che sì rispose. La Gorda era sempre in chiesa. A quel

tempo era una vera bigotta. » « Ti ricordi di quella casa laggiù? » chiesi, mostrandogliela. « È la casa di Silvio Manuel » disse. Tutti sobbalzarono a quel nome. Provai qualcosa di simile a una

lieve scossa elettrica che mi passava per le ginocchia. Il nome non mi era affatto noto, eppure udendolo il mio corpo trasalì. Silvio Manuel era un nome così poco comune; un suono così liquido.


I tre Genaros e Rosa erano altrettanto turbati. Notai che erano pallidi. A giudicare da come mi sentivo, anch’io dovevo essere pallido come loro.

« Chi è Silvio Manuel? » riuscii a chiedere a Josefina. « Ora mi hai colta in fallo » disse. « Non lo so. » Insistette a dire che era matta e che non si doveva prendere sul

serio niente di quel che diceva. Nestor la implorò di dirci qualunque cosa si ricordasse.

Josefina cercò di pensarci su, ma non era tipo da ragionare bene sotto pressione. Sapevo che sarebbe riuscita meglio se nessuno le avesse chiesto nulla. Proposi di cercare una panetteria o un posto dove mangiare.

« Non mi lasciavano fare molto in quella casa, ecco ciò che ricordo disse improvvisa Josefina. »

Si girò come per cercare qualcosa, o come se tentasse di orientarsi.

« Qui manca qualcosa! » esclamò. « Non è proprio com’era prima! »

Cercai di aiutarla ponendole delle domande che ritenevo adatte; per esempio, se mancassero case, o fossero state ridipinte, o ne fossero state costruite di nuove. Ma Josefina non riusciva a scoprire quale fosse la differenza.

Camminammo fino dal panettiere e comperammo delle ciambelle. Mentre tornavamo alla plaza per aspettare Lydia e la Gorda, Josefina di colpo si batté la fronte come se le fosse appena venuta un’idea.

« Ecco cosa manca! » esclamò. « Quello stupido muro di nebbia! Allora stava qui. Ora non c’è più. »

Parlammo tutti in una volta, chiedendole del muro, ma Josefina continuò il suo discorso senza far caso a noi, come se non fossimo presenti.

« Era un muro di nebbia che si alzava fino al cielo » disse. Era proprio lì. Ogni volta che mi voltavo era lì. Mi faceva diventare matta. È così, maledizione. Non ero affatto svitata finché non m’ha fatto impazzire quel muro. Lo vedevo sia che tenessi gli occhi chiusi o aperti. Pensavo che quel muro mi perseguitasse.»

Per un momento Josefina perse la sua vivacità naturale. Uno sguardo disperato le appannò gli occhi. Avevo visto quello sguardo in





persone in preda a psicosi. In fretta le suggerii di mangiarsi la sua ciambella. Si calmò immediatamente e cominciò a mangiare.

« Cosa pensi di tutto questo, Nestor? » chiesi. « Ho paura » rispose a bassa voce. « Ti ricordi di qualcosa? » gli domandai. Scosse la testa in senso di diniego: interrogai Pablito e Benigno

con un movimento delle sopracciglia. Anch’essi mi risposero di no col capo.

« E tu, Rosa? » chiesi.

Rosa sobbalzò quando sentì che mi rivolgevo a lei. Sembrava aver perso la parola. Teneva una ciambella in mano e la contemplava come se fosse indecisa su che cosa farne.

« Certo che lei ricorda, » disse Josefina ridendo « ma è spaventata da morire. Non vedi che sta pisciando dalle orecchie? »

Sembrava che Josefina pensasse che la sua ultima frase fosse il massimo della spiritosaggine. Si piegò in due dalle risate e lasciò cadere a terra la ciambella. Poi la raccolse, le tolse la polvere e se la mangiò.

« I matti mangiano tutto » dichiarò, dandomi una botta sulla schiena.

Nestor e Benigno sembravano urtati dalle bizzarrie di Josefina. Pablito invece andava in sollucchero. Nei suoi occhi c’era uno sguardo di ammirazione. Scosse la testa e schioccò la lingua come se non potesse credere a tanto gaudio.

« Andiamo in quella casa » insistette Josefina. « Là vi dirò un mucchio di altre cose.»

Dissi che dovevamo aspettare la Gorda e Lydia; inoltre era ancora troppo presto per disturbare la gentile signora che vi abitava. Pablito disse che quando faceva il carpentiere era stato in città e conosceva un posto dove una famiglia cucinava per la gente di passaggio. Josefina non voleva aspettare; per lei o si andava in quella casa o a mangiare. Scelsi di far colazione e dissi a Rosa di andare in chiesa a prendere la Gorda e Lydia, ma Benigno si offerse galantemente di aspettarle e portarle dopo da noi. Senza dubbio anche lui conosceva il luogo.

Pablito non ci condusse là subito, ci fece fare invece, su mia richiesta, un lungo giro. Alla periferia della città c’era un vecchio ponte che mi interessava. L’avevo visto dall’automobile il giorno in


cui ero venuto con la Gorda. La struttura sembrava del periodo coloniale. Andammo sul ponte e ci fermammo bruscamente a metà. Chiesi a un uomo che era lì fermo se il ponte fosse molto vecchio. Disse che l’aveva sempre visto lì, e che lui aveva passato i cinquant’anni. Pensavo che il ponte avesse un fascino particolare solo per me, ma scrutando gli altri dovetti concludere che anch’essi ne erano stati colpiti. Nestor e Rosa ansimavano, sfiatati, Pablito si te- neva a Josefina, e lei a sua volta s’abbrancava a me.

« Ti ricordi qualcosa, Josefina? » chiesi.

« Quel demonio di Silvio Manuel è dall’altra parte del ponte » disse, additandomi l’estremità opposta, lontana una decina di metri.

Fissai Rosa negli occhi. Lei annuì e sussurrò che una volta aveva attraversato quel ponte con grande terrore e qualcosa l’aveva attesa dall’altra parte per divorarla.

I due uomini non erano di nessun aiuto. Mi guardavano sconcertati. Ciascuno dichiarò di aver paura, senza ragione. Ero d’accordo con loro. Sentivo che non avrei osato attraversare quel ponte di notte per tutto l’oro del mondo. Ma non sapevo perché.

« Josefina, che ti ricordi ancora? » le chiesi.

« Ora il mio corpo è molto spaventato. Non riesco a ricordare null’altro. Quel demonio di Silvio Manuel sta sempre nelle tenebre. Chiedi a Rosa. »

Con un movimento del capo invitai Rosa a parlare. Assentì tre o quattro volte, ma non riusciva a emettere le parole. La tensione che anch’io provavo era fuori luogo, eppure reale. Eravamo tutti lì in piedi nel bel mezzo di quel ponte, incapaci di fare un solo passo nella direzione indicata da Josefina. Alla fine Josefina prese l’iniziativa e fece dietrofront. Tornammo al centro della città. Allora Pablito ci guidò a un grande edificio. La Gorda, Lydia e Benigno stavano già mangiando. Avevano ordinato anche per noi. Io non avevo fame. Pablito, Nestor e Rosa erano come storditi; Josefina invece mangiò di buon appetito. Attorno alla tavola c’era un silenzio di malaugurio. Tutti evitarono il mio sguardo quando cercai di intavolare una conversazione.

Dopo colazione ci dirigemmo verso la casa. Nessuno disse una parola. Bussai e quando la signora venne alla porta le spiegai che





volevo mostrare la sua casa ai miei amici. Esitò per un momento. La Gorda le diede del denaro e si scusò per il disturbo che le arrecavamo.

Josefina ci condusse direttamente sul retro. La prima volta non avevo visto quella parte della casa. C’era un cortile lastricato con una serie di stanze disposte tutt’intorno e ingombranti attrezzi agricoli depositati sotto il portico. Ebbi la sensazione di aver visto quel cortile senza tutto quel disordine. C’erano Otto stanze, due per ognuno dei quattro lati della corte. Nestor, Pablito e Benigno sembravano sul punto di star male. La Gorda era tutta coperta di sudore. Si sedette con Josefina in una nicchia ricavata in uno dei muri, mentre Lydia e Rosa entrarono in una delle stanze. Nestor sembrò preso da un improvviso desiderio di trovare qualcosa e scomparve in un’altra stanza. Lo stesso fecero Pablito e Benigno.

Rimasi solo con la signora. Volevo parlarle, farle delle domande, sapere se conosceva Silvio Manuel, ma non riuscii a radunare le forze per esprimermi. Avevo lo stomaco contratto. Le mani sgocciolavano sudore. Quello che mi opprimeva era una vaga tristezza, una nostalgia per qualcosa immateriale e indefinibile.

Non riuscivo a sopportarlo. Stavo per salutare la signora e andarmene quando mi venne vicino la Gorda. Mi sussurrò che dovevamo sederci in una grande stanza al di là di una sala separata dal cortile. La potevamo vedere da dove eravamo. Andammo fin lì ed entrammo. Era una stanza vuota, molto vasta, buia ma ariosa; aveva un alto soffitto con travi a vista.

La Gorda chiamò tutti gli altri in quella stanza. La signora si limitò a guardare ma non entrò. Ciascuno sembrava sapere con precisione dove sedersi. I Genaros si sedettero a destra della porta, su un lato della stanza, e la Gorda e le tre sorelline a sinistra, sull’altro lato. Si sedettero appoggiandosi al muro. Nonostante mi sarebbe piaciuto stare accanto alla Gorda, mi sedetti verso il centro della stanza. Il posto sembrava adatto a me. Non sapevo perché ma un ordine lontano sembrava aver determinato i nostri posti.

Mentre ero seduto, fui sommerso da un’onda di sentimenti strani. Ero passivo e sereno. Mi immaginai simile a uno schermo cinematografico su cui venivano proiettati altri sentimenti di tristezza e di nostalgia. Non c’era nulla che potessi identificare come un preciso ricordo. Rimanemmo in quella stanza per più di un’ora. Verso


la fine sentii che ero sul punto di scoprire l’origine di quella soprannaturale tristezza che mi provocava un pianto quasi incontrollabile. Ma proprio allora, con la stessa mancanza di intenzionalità con cui ci eravamo seduti, ci alzammo e uscimmo. Non ringraziammo neppure la padrona di casa, né la salutammo.

Ci ritrovammo nella plaza. La Gorda dichiarò subito che, poiché era senza forma, si riteneva ancora il capo. Disse che prendeva quella posizione in seguito alle conclusioni a cui era giunta in casa di Silvio Manuel. Sembrava in attesa di commenti. Il silenzio degli altri mi era intollerabile. Alla fine dovetti dire qualcosa.

« A che conclusioni sei giunta in quella casa, Gorda? » le chiesi. « Penso che le conosciamo tutti » rispose in tono arrogante. « No » dissi. « Nessuno ha ancora detto nulla. » « Non abbiamo bisogno di parlare. Sappiamo, noi! » disse la

Gorda. Insistetti dicendo che un fatto così importante non potevo darlo

per scontato. Dovevamo parlare delle nostre impressioni. Per quanto mi riguardava, tutto quello che avevo ricavato da quella visita era un desolante senso di tristezza e di disperazione.

« Il Nagual Juan Matus aveva ragione » disse la Gorda. « Dovevamo sederci in quel luogo di potere per essere liberi. Io ora sono libera. Non so come è successo, ma appena mi sono seduta, qualcosa mi è stato levato di dosso.»

Le tre donne si trovarono d’accordo con lei. I tre uomini no. Nestor disse che era stato sul punto di ricordarsi di certe fisionomie, ma per quanto avesse cercato di decifrare le immagini, qualcosa lo aveva ostacolato. Tutto quello che aveva provato era stato un senso di nostalgia e di tristezza al ritrovarsi ancora in questo mondo. Pablito e Benigno dissero più o meno le stesse cose.

« Vedi cosa voglio dire, Gorda? » dissi.

Sembrò contrariata. Parlò con un disprezzo che non le avevo mai visto. O l’avevo invece già vista così da qualche parte? Arringò il gruppo. Non riuscivo a far attenzione alle sue parole. Ero immerso in un ricordo, ancora indistinto, ma che riuscivo quasi ad afferrare. Per mantenerlo vivo sembrava che avessi bisogno di un continuo contatto con la Gorda. Mi concentravo sul suono della sua voce, sulla sua indignazione. A un certo punto, quando lei stava cominciando a





placarsi, le gridai che faceva la prepotente. Ne fu davvero sconvolta. La tenni d’occhio per un po’. Mi veniva in mente un’altra Gorda, in un’altra occasione; una Gorda furibonda, grassa, che mi pestava i pugni nelle costole. Mi ricordavo di aver riso a vederla così infuriata, assecondandola come fosse un bambino. Il ricordo svanì quando la voce della Gorda tacque. Sembrava che si fosse accorta di quello che stavo facendo.

Rivolgendomi a tutti dissi che eravamo in una situazione precaria — qualcosa di ignoto incombeva su di noi.

« Non sta incombendo su di noi » disse la Gorda secca. « Ci ha già colpiti. E credo che tu sappia cosa sia. »

« Io non lo so, e penso di poter parlare anche per il resto di noi uomini » dissi.

I tre Genaros fecero un cenno di assenso.

« Noi siamo vissuti in quella casa quando eravamo sul lato sinistro » spiegò la Gorda. « Avevo l’abitudine di sedermi in quella nicchia a piangere perché non riuscivo a capire quel che dovevo fare. Credo che se oggi avessi potuto restare seduta un po’ di più in quella stanza, mi sarei ricordata di tutto. Ma qualcosa mi ha spinto fuori. Avevo anche l’abitudine di sedermi in quella stanza quando era piena di gente. Non riesco però a ricordarmi le facce di nessuno. L’esserci oggi mi ha comunque chiarito altre cose. Sono senza forma. Mi tornano tante cose, buone e cattive. Ho ritrovato, per esempio, la mia arroganza di una volta e il desiderio di primeggiare. Ma ho anche ritrovato altre cose, cose buone. »

« Anch’io » disse Lydia con voce stridula. « Quali sono queste cose buone? » chiesi. « Credo di aver torto a detestarti » disse Lydia. « Questo

sentimento mi impedirà di volare via. Me l’hanno detto in quella stanza, gli uomini e le donne che c’erano! »

« Quali uomini e quali donne? » chiese Nestor, in tono spa- ventato.

« C’ero io e c’erano loro, ecco tutto quello che so » disse Lydia. « C’eravate anche voi. C’eravamo tutti. »

« E chi erano quegli uomini e quelle donne, Lydia? » chiesi. « C’ero io e c’erano loro, ecco tutto quello che so » ripeté. « E tu, Gorda? » chiesi.


« Ti ho già detto che non posso ricordarmi nessun viso, o nessun altro particolare » disse. « Ma so una cosa: qualsiasi cosa abbiamo fatto in quella casa, era sul lato sinistro. Abbiamo attraversato, o qualcuno ci ha fatto attraversare, le linee parallele. Gli strani ricordi che ci colgono vengono da quel tempo, da quel mondo. »

Spontaneamente, senza alcun accordo verbale, lasciammo la plaza e ci dirigemmo verso il ponte. La Gorda e Lydia ci precedettero di corsa. Le raggiungemmo nel punto esatto dove anche noi ci eravamo fermati la prima volta.

« Silvio Manuel è la tenebra » mi sussurrò la Gorda, con gli occhi fissi all’altra estremità del ponte.

Lydia stava tremando. Anche lei cercò di parlarmi. Non riuscivo a capire quello che formulavano le sue labbra.

Li trassi tutti indietro, lontano dal ponte. Pensavo che forse se avessimo potuto ricomporre i frammenti di ciò che sapevamo su quel luogo, avremmo ottenuto un mosaico che ci avrebbe aiutato a risolvere il nostro problema.

Ci sedemmo per terra a pochi metri dal ponte. C’era un mucchio di gente che ci mulinava attorno, ma nessuno badava a noi.

« Chi è Silvio Manuel, Gorda? » chiesi.

« Non avevo mai sentito questo nome fino a ora » rispose. « Non ho mai visto quell’uomo, eppure lo conosco. Quando sentii quel nome, mi vennero addosso come delle onde. Josefina me lo ha menzionato quando eravamo nella casa. Da quel momento sono cominciati a venirmi pensieri e parole, proprio come a Josefina. Non credevo che sarei vissuta fino a ritrovarmi simile a Josefina. »

« Perché hai detto che Silvio Manuel è la tenebra? » chiesi. « Non ne ho idea’ disse. « Eppure tutti noi sappiamo che è vero.» Sollecitò le altre donne a parlare. Nessuna disse niente. Me là

presi con Rosa. Per tre o quattro volte, era stata lì lì per dire qualcosa. L’accusai di non dirci tutto quel che sapeva. Il suo corpo minuto trasalì.

« Abbiamo attraversato il ponte, e Silvio Manuel ci attendeva sull’altra sponda » disse con una voce appena appena udibile. « Io passai per ultima. Quando lui divorò gli altri io sentii le loro grida. Volevo scappare, ma quel demonio di Silvio Manuel era da tutt’e due le parti del ponte.»





La Gorda, Lydia e Josefina assentirono. Chiesi se si trattava solo di una impressione che avevano avuto, o di un reale ricordo, attimo- per-attimo, o che altro. La Gorda disse che per lei era accaduto esattamente quello che aveva descritto Rosa, un ricordo attimo-per- attimo. Le altre due assentirono.

Mi chiesi ad alta voce che cosa fosse successo della gente che abitava vicino al ponte. Se le donne urlavano, come Rosa aveva detto, i passanti dovevano averle sentite; le grida avrebbero causato un trambusto. Per un attimo ebbi l’impressione che tutta la città doveva aver partecipato alla congiura. Fui percorso da un brivido. Mi rivolsi a Nestor e gli espressi senza reticenze tutte le mie paure.

Nestor disse che il Nagual Juan Matus e Genaro erano guerrieri di somma virtù, e come tali esseri solitari. I loro contatti con la gente si stabilivano su basi individuali. Non c era alcuna possibilità che l’intera città, o anche la gente che abitava vicino al ponte, fosse in collusione con loro. Perché ciò si verificasse, disse, avrebbero dovuto essere tutti guerrieri, cosa assai improbabile.

Josefina cominciò a girarmi attorno, squadrandomi da capo a piedi con espressione beffarda.

« Hai una bella sfacciataggine » disse. « Fingi di non sapere nulla quando eri qui anche tu! Tu ci hai portati qui! Tu ci hai trascinati fino a questo ponte! »

Lo sguardo delle donne divenne minaccioso. Mi rivolsi per aiuto a Nestor.

« Non mi ricordo nulla » disse. « Questo posto mi fa paura, è tutto quello che so. »

Rivolgermi a Nestor fu una brillante manovra da parte mia. Le donne si scatenarono contro di lui.

« Ma certo che ti ricordi! » gli urlava in faccia Josefina. « Eravamo tutti qui. Che razza di stupido somaro sei! »

Per la mia indagine avevo bisogno di un senso di ordine. Li feci allontanare dal ponte. Pensavo che, da quelle persone attive che erano, avrebbero trovato più rilassante passeggiare mentre si confidavano, piuttosto che star seduti, come invece avrei preferito io.

Mentre camminavamo, la stizza delle donne sparì come era venuta. Lydia e Josefina divennero perfino più loquaci. Spiegarono fino alla noia la loro sensazione che Silvio Manuel fosse terrificante.


Ciò nonostante, nessuna ricordava di aver subìto un male fisico; ricordavano solo di essersi sentite paralizzate dalla paura. Rosa non pronunziava parola, ma esprimeva a gesti il suo consenso a tutto quello che le altre dicevano. Chiesi se fosse notte, quando avevano cercato di attraversare il ponte. Sia Lydia sia Josefina dissero che era giorno. Rosa si schiarì la gola e sussurrò che era notte. La Gorda spiegò il disaccordo, dicendo che era stato ai primi chiarori dell’alba, o più presto ancora.

Giungemmo in fondo a una breve via, e automaticamente tornammo indietro, verso il ponte.

« E chiaro come il giorno » disse, la Gorda, quasi che d’un tratto avesse capito tutto. « Stavamo attraversando, o piuttosto Silvio Manuel ci faceva attraversare, le linee parallele. Il ponte è un luogo di potere, un buco in questo mondo, una porta verso l’altro. Noi ci siamo passati attraverso. Dobbiamo aver sofferto in questo passaggio, poiché il mio corpo è spaventato. Silvio Manuel ci stava aspettando dall’altra parte. Nessuno di noi ricorda la sua faccia, poiché Silvio Manuel è tenebra, e non mostrerebbe mai la faccia. Abbiamo potuto solo vedere gli occhi.»

« Un occhio » disse Rosa piano, e guardando altrove.

« Qui, tutti, te compreso, sanno che la faccia di Silvio Manuel è nella tenebra » mi disse la Gorda. « Si può solo sentirne la voce, bassa, come una tosse soffocata.»

La Gorda tacque, e cominciò a scrutarmi in un modo che mi mise a disagio. Aveva uno sguardo astuto, e mi dava l’impressione che mi stesse celando qualcosa che conosceva. Glielo chiesi. Negò, ma ammise di avere una infinità di sensazioni immotivate che non aveva voglia di spiegare. Io insistetti, poi chiesi che le donne facessero uno sforzo per ricordarsi cosa era successo loro dall’altro lato del ponte. Ognuna poteva ricordare solo di aver sentito le grida delle altre.

I tre Genaros rimasero fuori dalla discussione. Chiesi a Nestor se avesse qualche idea di quel che era successo. La sua triste risposta fu che tutto andava oltre la sua capacità di apprendere.

Presi allora una rapida decisione. Mi sembrò che l’unica via rimasta fosse di attraversare quel ponte. Li radunai per ritornare lì e passarci sopra tutti in gruppo. Gli uomini furono subito d’accordo, le donne no. Dopo aver esaurito tutti i miei argomenti, alla fine dovetti





trascinare a strattoni Lydia, Rosa e Josefina. La Gorda nicchiava, pur incuriosita dalla prospettiva. Mi seguiva senza darmi una mano per le altre donne, e lo stesso fecero i Genaros; questi ridacchiavano ner- vosamente ai miei sforzi di tener testa alle sorelline, ma non muovevano un dito per aiutarmi. Camminammo fino al punto in cui ci eravamo fermati l’altra volta. Lì mi accorsi che ero diventato all’improvviso troppo debole per tenere le tre donne. Chiesi aiuto alla Gorda, con un urlo. Fece un tentativo poco convinto di afferrare Lydia, mentre il gruppo si scioglieva e ciascuno, tranne la Gorda, si affannava, sbuffando e col passo pesante, a porsi al sicuro sulla strada. La Gorda e io ce ne restammo, come se fossimo incollati al ponte, incapaci di andare avanti e riluttanti a tornare indietro. La Gorda mi sussurrò all’orecchio che non dovevo avere assolutamente paura, perché ero io in realtà colui che era stato ad attenderli dall’altra parte del ponte. Aggiunse di essere certa che io sapevo di essere l’aiutante di Silvio Manuel, ma non osavo dirlo a nessuno.

Allora una furia incontrollabile mi scosse tutto. Sentivo che la Gorda non aveva alcun diritto di fare quelle osservazioni o di avere quei pensieri. L’afferrai per i capelli e la feci piroettare su se stessa. Nel colmo dell’ira mi ripresi e mi fermai. Le feci le mie scuse e l’abbracciai. Un pensiero realistico mi venne in aiuto. Le dissi che la responsabilità di essere il capo mi rendeva nervoso; la tensione diventava sempre più forte man mano che andavamo avanti. Non fu d’accordo con me. Insisté con ostinazione nell’idea che Silvio Manuel e io avessimo strettissimi legami, e che avevo reagito così irosamente perché mi era stato ricordato il mio padrone. Per fortuna lei era stata affidata a me, disse, altrimenti l’avrei forse scaraventata giù dal ponte.

Tornammo indietro. Gli altri erano al sicuro lontani dal ponte, e ci fissavano con evidente terrore. Sembrava che fossimo piombati in una strana atmosfera senza tempo. Non c’era anima viva intorno. Dovevamo essere rimasti su quel ponte per cinque minuti buoni e nessuno l’aveva attraversato o almeno noi non avevamo visto nessuno. E di colpo ci fu gente attorno, come in ogni strada di passaggio nelle ore di maggior traffico.

Senza una parola ritornammo nella plaza. Eravamo peri- colosamente deboli. Avevo un vago desiderio di rimanere in città un


altro po’, tuttavia salimmo in macchina e ci dirigemmo a est, verso la costa atlantica. A turno guidammo Nestor e io, fermandoci solo a mangiare e a far benzina, finché arrivammo a Veracruz. Questa città era per noi terreno neutrale. Io c’ero stato solo una volta, e gli altri mai. La Gorda pensava che una città sconosciuta sarebbe stata il luogo adatto per abbandonare le loro vecchie spoglie. Scendemmo in un albergo e là procedettero a ridurre a brandelli i vecchi abiti. L’ec- citazione per la città nuova fece miracoli per il loro morale e diede loro una sensazione di benessere.

La tappa successiva fu Città del Messico. Ci fermammo a un albergo vicino all’Alameda Park, dove io ero già stato una volta con don Juan. Per due giorni fummo turisti perfetti. Facemmo compere e visitammo il maggior numero possibile di attrazioni. Le donne erano meravigliose. Benigno comperò una macchina fotografica da un rigattiere. Fece quattrocentoventicinque scatti senza aver messo la pellicola. In un posto, dove stavamo ammirando degli stupendi mosaici murali, una guardia mi chiese di dov’erano quelle splendide straniere. Pensava che io fossi una guida turistica. Risposi che veni- vano da Sri Lanka. Mi credette e si meravigliò che sembrassero quasi messicane.

Il giorno dopo, alle dieci del mattino, eravamo all’ufficio delle aviolinee nel quale mi aveva spinto una volta don Juan. Quando mi aveva dato lo spintone, ero entrato da una parte e uscito dall’altra, ma non in strada, come mi sarei aspettato, ma in un mercato lontano almeno un miglio, dove ero rimasto a contemplare l’attività della gente del posto.

Secondo la Gorda l’ufficio delle aviolinee era anch’esso, come il ponte, una porta per passare da una linea parallela all’altra. Disse che senza dubbio il Nagual mi aveva spinto attraverso quell’apertura ma che io ero rimasto a metà strada, fra le due linee; per questo ero stato a guardare l’attività del mercato senza parteciparvi. Disse che il Nagual aveva inteso farmi passare completamente dall’altra parte, ma che la mia ostinazione l’aveva ostacolato ed ero stato ributtato sulla linea da cui ero partito, questo mondo.

Andammo a piedi dall’ufficio al mercato, e di lì all’Alameda Park dove don Juan e io ci eravamo andati a sedere dopo l’avventura





dell’ufficio. In quel parco ero stato molte volte con don Juan. Pensavo fosse il posto più adatto per stabilire i nostri programmi futuri.

Avevo l’intenzione di riepilogare tutto quello che avevamo fatto perché il potere di quel luogo decidesse lui quale dovesse essere la nostra prossima mossa. Dopo il nostro deliberato tentativo di attraversare il ponte, avevo cercato invano di escogitare un modo per guidare i miei compagni in gruppo. Ci sedemmo su dei gradini di pietra, e io iniziai a esporre l’idea che per me la conoscenza era tutt’uno con la parola. Dissi che era mio fermo convincimento che se un fatto o un’esperienza non venivano formulati come concetto, erano condannati a svanire; chiesi quindi di darmi ciascuno il proprio giudizio sulla nostra situazione.

Pablito fu il primo a parlare. Lo trovai strano, visto che era stato così silenzioso. Si scusò perché quello che voleva raccontare non era una sensazione o un ricordo, ma una conclusione basata su quanto gli era noto. Disse che non trovava alcuna difficoltà a capire quello che, a detta delle donne, era successo sul ponte. Secondo lui, erano stati solo costretti a passare dal lato destro, il tonal, al lato sinistro, il nagual. Quello che aveva spaventato tutti era il sentirsi in potere di qualcuno che obbligava a questo passaggio. Non aveva neppure difficoltà ad accettare il fatto che ero stato io allora l’aiutante di Silvio Manuel. Corroborava la sua conclusione dicendo che solo due giorni prima mi aveva visto fare la stessa cosa, quando avevo spinto tutti sul ponte. Quella volta non avevo avuto nessuno dall’altra parte, non c’era stato nessun Silvio Manuel a tirarli.

Cercai di cambiare argomento, e cominciai a spiegare che il dimenticare le cose, come avevamo fatto noi, si chiamava amnesia. Quel poco che sapevo sull’amnesia non era sufficiente a gettar luce sul nostro caso, ma bastava a farci credere che non potevamo dimenticare quasi a comando. Dissi che qualcuno, magari don Juan, doveva averci fatto qualcosa di misterioso. Volevo scoprire di che cosa si trattava esattamente.

Pablito insisteva sull’importanza che mi persuadessi di essere stato in combutta con Silvio Manuel. Fece capire poi che Lydia e Josefina gli avevano parlato della parte da me avuta nell’obbligarle ad attraversare le linee parallele.


Quel discorso mi metteva a disagio. Feci notare che non avevo mai sentito nominare le linee parallele fino a quando ne avevo parlato con dona Soledad; tuttavia non avevo esitato minimamente ad accettarne l’idea. Dissi che avevo compreso in un lampo quello che lei voleva dire. Fui perfino convinto che le avevo attraversate anch’io, quando credetti di ricordarmelo. Tutti, tranne la Gorda, dissero che la prima volta che avevano sentito menzionare le linee parallele era stato quando l’avevo fatto io. La Gorda disse che gliene aveva parlato per la prima volta dona Soledad, giusto prima di me.

Pablito fece per accennare ai miei rapporti con Silvio Manuel. Lo interruppi. Dissi che quando stavamo tutti cercando di attraversare il ponte non mi ero reso conto che io, e presumibilmente tutti gli altri, fossi entrato in uno stato di esistenza irreale. Mi accorsi del cambiamento solo quando vidi che non c’erano altre persone sul ponte. C’eravamo solo noi Otto. Era una giornata limpida ma a un tratto il cielo si era rannuvolato e s’era fatto buio a metà mattina. Ero così immerso nelle mie paure e nelle mie interpretazioni personali che mi era sfuggito quello spaventoso fenomeno. Quando ci allonta- nammo dal ponte percepii di nuovo il movimento della gente attorno a noi. Ma cosa ne era stato di loro mentre noi stavamo tentando di attraversare?

La Gorda e gli altri non avevano notato nulla — in realtà non si erano accorti di alcun cambiamento finché non glielo avevo descritto io. Tutti mi guardarono con un misto di fastidio e di timore. Pablito prese di nuovo l’iniziativa e mi accusò di volerli spingere verso qualcosa che loro rifiutavano. Non specificò di cosa si trattasse, ma la sua eloquenza bastò a fare passare tutti gli altri dalla sua parte. Di colpo mi trovai contro un’orda di stregoni inferociti. Faticai a lungo per far loro capire il bisogno che sentivo di esaminare da ogni punto di vista un’esperienza così strana come quella del ponte, che ci aveva completamente annichiliti. Alla fine si calmarono, non tanto perché fossero convinti, ma perché l’emozione li aveva spossati. Tutti, la Gorda inclusa, avevano sostenuto con calore la tesi di Pablito.

Nestor suggerì un altro ragionamento. Disse che forse io — messaggero inconsapevole — non mi ero accorto del vero scopo delle mie azioni. Aggiunse di non poter credere, come invece facevano gli





altri, che fossi conscio di aver ricevuto l’incarico di ingannarli. Secondo lui, io ignoravo davvero che li stavo portando alla perdizione, anche se era proprio quello che facevo. Riteneva che ci fossero due modi di attraversare le linee parallele: uno con il potere altrui e l’altro con il proprio. La sua conclusione finale era che Silvio Manuel li aveva fatti attraversare spaventandoli a un punto tale che alcuni non si ricordavano neppure di averlo fatto. La missione che restava loro da compiere era di attraversare le linee con il proprio potere; la mia di ostacolarli.

Poi parlò Benigno. A parer suo, l’ultima cosa che don Juan aveva fatto per noi apprendisti maschi era stato di aiutarci ad attraversare le linee saltando in un abisso. Benigno credeva che ormai possedessimo una profonda conoscenza di questo attraversamento, ma non era ancora il momento di compierlo di nuovo. Al ponte, erano stati incapaci di fare un passo in più perché non era il momento giusto. Avevano quindi ragione di credere che io avessi cercato di distruggerli forzandoli a passare. Pensava che attraversare le linee parallele in piena consapevolezza avrebbe significato per tutti loro un passo senza ritorno, un passo da compiere solo quando fossero stati pronti a sparire da questa terra.

Dopo toccò a Lydia di affrontarmi. Non fece nessuna valutazione dei fatti, ma mi sfidò a ricordare come l’avevo attirata la prima volta sul ponte. Dichiarò sfacciatamente che io non ero l’apprendista del Nagual Juan Matus, ma di Silvio Manuel; e che Silvio Manuel e io ci eravamo divorati l’un l’altro.

Ebbi un altro attacco di rabbia, come con la Gorda sul ponte. Mi trattenni a tempo. Mi calmai con un pensiero logico. Continuai a ripetermi che quello che mi interessava era analizzare i problemi.

Spiegai a Lydia che era inutile farsi beffe di me in quel modo. Non volle smettere. Urlò che Silvio Manuel era il mio padrone e che questo era il motivo per cui non facevo parte del loro gruppo. Rosa aggiunse che Silvio Manuel mi aveva dato tutto quello che ero.

Chiesi a Rosa la ragione di quel suo modo di esprimersi. Le dissi che avrebbe dovuto dire che Silvio Manuel mi aveva dato tutto quello che avevo. Lei difese le parole usate: Silvio Manuel mi aveva dato tutto quel che ero. Perfino la Gorda le diede ragione e disse che si


ricordava una volta in cui ero stato così male che non mi era rimasta più forza, tutto in me si stava esaurendo; allora era arrivato Silvio Manuel e mi aveva infuso in corpo nuova vita. La Gorda disse che era molto meglio conoscessi la mia vera origine invece di andare avanti a credere, come avevo fatto fino a quel momento, che fosse stato il Nagual Juan Matus ad aiutarmi. Proseguì affermando che mi ero fissato sul Nagual, causa la sua predilezione per le parole. Silvio Manuel, invece, era la tenebra silenziosa. Mi spiegò che per seguirlo avrei dovuto attraversare le linee parallele. Per seguire il Nagual Juan Matus non dovevo fare altro che parlare di lui.

Questi discorsi erano per me privi di senso. Stavo per dire ciò che avrebbe potuto essere conclusivo, quando la mia linea di ragionamento andò addirittura in frantumi. Non riuscivo a rimettere in sesto le idee nonostante un attimo prima tutto fosse chiaro come il giorno. Mi assalì invece un ricordo curiosissimo. Non era una sensazione, ma un vero e proprio ricordo di un fatto. Mi tornò in mente che una volta mi trovavo con don Juan e un altro di cui non ricordavo il viso. Stavamo parlando fra noi di qualcosa che io percepivo come una caratteristica del mondo e si trovava a tre o quattro metri alla mia destra. Era un inimmaginabile banco di nebbia giallastra, che, per quanto potevo giudicare, divideva il mondo in due. Andava da terra fino al cielo, all’infinito. Mentre parlavo ai due uomini, la metà del mondo alla mia sinistra rimaneva nitida, mentre quella alla mia destra era velata dalla nebbia. Ricordavo che mi ero orientato con dei punti di riferimento, e avevo dedotto che l’asse del banco di nebbia andava da est a ovest. Tutto quello che stava a nord di quella linea era il mondo come lo conoscevo io. Mi ricordo di aver chiesto a don Juan che ne era stato del mondo a sud della linea. Don Juan mi aveva fatto girare di pochi gradi alla mia destra, e avevo visto che anche il muro di nebbia si muoveva, mentre muovevo il capo. Il mondo era diviso in due a un livello che il mio intelletto non poteva afferrare. La divisione sembrava reale ma il confine non stava su un piano fisico; doveva essere in qualche modo in me stesso. O forse no?

C’era ancora un altro aspetto di questo ricordo. L’altro uomo disse che era una grande impresa dividere il mondo in due, ma ancora più grande se un guerriero aveva la calma e la capacità di fermare la rotazione di quel muro. Disse che il muro non era dentro di noi; era





certamente fuori, nel mondo, a dividerlo in due, e ruotando quando noi si muoveva la testa, come se fosse fissato alla tempia destra. La ammirevole capacità di impedire al muro di girare permetteva al guerriero di porglisi di fianco e gli dava il potere di attraversarlo ogniqualvolta lo volesse.

Quando riferii agli apprendisti quello che mi era appena tornato in mente, le donne si convinsero che l’altro uomo era Silvio Manuel. Josefina, quale esperta del muro di nebbia, mi spiegò che il vantaggio che Eligio aveva su tutti gli altri era la capacità di fermare il muro così da poterlo attraversare a suo piacere. Aggiunse che è più facile attraversare il muro di nebbia in sogno, perché allora non si muove.

La Gorda sembrava assalita da una serie di ricordi forse penosi. Continuò a trasalire, finché non esplose in un fiume di parole. Disse che non poteva più negare il fatto che io fossi l’aiutante di Silvio Manuel. Lo stesso Nagual l’aveva avvertita che se non fosse stata attenta l’avrei fatta diventare mia schiava. Perfino Soledad le aveva detto di guardarsi da me, perché il mio spirito catturava prigionieri e li teneva come servi, cosa che solo Silvio Manuel era solito fare. Lui mi aveva reso schiavo, e io a mia volta avrei reso schiavo chiunque mi fosse venuto vicino. Dichiarò di essere vissuta sotto il mio influsso magnetico fino al momento in cui si era seduta in quella stanza nella casa di Silvio Manuel, quando un peso le era stato all’improvviso tolto dalle spalle.

Balzai in piedi e vacillai per l’impatto delle parole della Gorda. Avevo un vuoto allo stomaco. M’ero convinto di poter contare sul suo aiuto in ogni situazione. Ora mi sentivo tradito. Pensai che sarebbe stato opportuno far conoscere loro le mie sensazioni, ma un certo riserbo me lo impedì. Così dissi loro di esser giunto alla spassionata conclusione, come guerriero, che don Juan aveva cambiato al meglio il corso della mia vita. Avevo valutato mille volte quello che mi aveva fatto, e la conclusione era sempre stata la stessa. Mi aveva portato la libertà. La libertà era tutto quello che conoscevo, tutto quello che potevo dare a chiunque volesse venire da me.

Nestor mi fece un gesto di solidarietà. Esortò le donne ad abbandonare la loro animosità nei miei riguardi. Mi guardava con lo sguardo di chi non comprende però vorrebbe comprendere. Disse che non appartenevo alloro gruppo, ma ero in realtà un individuo solitario.


Loro avevano avuto bisogno di me per un certo periodo, per infrangere le loro frontiere dell’affetto e dell’abitudine. Ora che erano liberi, il cielo era il loro ultimo limite. Rimanere con me sarebbe stato per loro di certo piacevole ma mortale.

Sembrava profondamente commosso. Mi si avvicinò e mi pose una mano su una spalla. Disse che aveva il presentimento che non ci saremmo visti mai più su questa terra. Era dispiaciuto che stessimo per separarci come gente da poco, litigando, contestando, pronti alle accuse. Mi disse che, parlando a nome degli altri, ma non suo, stava per chiedermi di andarmene poiché non avevamo altre possibilità di stare insieme. Aggiunse che aveva riso quando la Gorda ci aveva parlato del serpente che avevamo formato. Ora aveva cambiato idea e non trovava più ridicola quell’immagine. Era stata la nostra ultima occasione di riuscire a formare un gruppo.

Don Juan mi aveva insegnato ad accettare con umiltà la mia sorte.

« Il corso del destino di un guerriero è immutabile » mi aveva detto una volta. « La sfida è fino dove può arrivare entro quei rigidi confini, quanto può essere impeccabile entro quei rigidi confini. Se incontra ostacoli sul suo cammino, il guerriero si batte in modo impeccabile per oltrepassarli. Se trova insopportabili difficoltà e sofferenze sul suo cammino, piange, ma tutte le sue lacrime messe insieme non potranno mutare di un filo il corso del suo destino. »

La mia decisione originale di lasciare che il potere del luogo decidesse la nostra mossa successiva era stata giusta. Mi alzai. Gli altri volsero lo sguardo altrove. La Gorda mi venne vicina e disse, come se nulla fosse accaduto, che dovevo andarmene e lei mi avrebbe raggiunto più tardi per venire con me. Volevo ribatterle che non vedevo alcun motivo per cui volesse venire con me. Aveva scelto di stare con gli altri. Sembrò indovinare la mia sensazione di essere stato tradito. Mi disse con calma che dovevamo compiere il nostro destino insieme da guerrieri, e non da quella gentucola che eravamo.





PARTE SECONDA

L’ARTE DI SOGNARE


6

LA PERDITA DELLA FORMA UMANA

Alcuni mesi più tardi, dopo aver aiutato gli altri a stabilirsi ex novo in varie parti del Messico, la Gorda andò ad abitare in Arizona. Incominciammo allora a svolgere la parte più strana e più impegnativa del nostro apprendistato. All’inizio i nostri rapporti furono alquanto tesi. Per me era assai difficile dimenticare il modo in cui ci eravamo separati nell’Alameda Park. La Gorda, nonostante sapesse dove fossero gli altri, non me ne fece mai parola. Pensava che per me sarebbe stato superfluo sapere quel che facevano.

In apparenza sembrava che non ci fossero problemi fra la Gorda e me. Ciò nonostante provavo un amaro risentimento verso di lei, per essersi schierata dalla parte degli altri contro di me. Non lo esprimevo ma continuavo a provarlo. La aiutavo e facevo quel che le serviva, come se nulla fosse successo, ma questo rientrava nel capitolo dell’impeccabilità. Era il mio dovere; per adempierlo, sarei andato serenamente incontro alla morte. Di proposito mi dedicai con tutto me stesso a istruirla e a guidarla nei meandri della vita moderna in città; stava perfino imparando l’inglese. Faceva progressi fenomenali.

Passarono tre mesi senza che quasi me ne accorgessi. Ma un giorno, mentre stavo a Los Angeles, mi svegliai di primo mattino con un insopportabile peso alla testa. Non era un’emicrania; piuttosto era come un’intensa pressione nelle orecchie. La sentivo anche sulle palpebre e contro il palato. Mi pareva di avere la febbre, ma il calore era solo dentro la mia testa. Feci un debole tentativo di mettermi a sedere. Mi balenò il pensiero che mi stesse venendo un colpo. La prima reazione fu di chiedere aiuto, ma in qualche modo riuscii a calmarmi e cercai di liberarmi dai miei timori. Dopo un po’ la pressione al capo cominciò a diminuire, in compenso si spostò alla gola. Mi mancava l’aria e per un po’ continuai a tossire e ad aver





conati di vomito; poi la pressione si spostò lentamente al petto, poi allo stomaco, all’inguine, alle gambe, ai piedi, prima di lasciare definitivamente il mio corpo.

Qualsiasi cosa fosse quello che mi era successo, si sviluppò in due ore circa. Durante quelle snervanti due ore fu come se qualcosa all’interno del mio corpo si stesse effettivamente spostando in basso per venir fuori. Immaginavo che si srotolasse come un tappeto. Un’altra immagine mi venne in mente, quella di una bolla che si muoveva nella cavità del mio corpo. Le scartai a favore della prima poiché avevo la sensazione di qualcosa che fosse avvolto su se stesso. Proprio come un tappeto arrotolato, diventava più pesante e quindi più doloroso, man mano che scendeva. Le due zone dove il dolore divenne acutissimo furono le ginocchia e i piedi, specie il destro, che rimase caldissimo per trentacinque minuti dopo che il dolore e la pressione erano scomparsi.

La Gorda, udito il mio resoconto, disse che questa volta avevo di certo perso la forma umana, che avevo rinunciato a tutte le mie difese, o almeno alla maggior parte. Aveva ragione. Senza sapere come, e senza rendermi neppur conto di quello che era successo, mi ritrovai in una situazione del tutto nuova. Mi sentivo distaccato, privo di pregiudizi. Non m’importava quel che mi avesse fatto la Gorda. Non che le avessi perdonato il suo biasimevole comportamento nei miei riguardi; era piuttosto come se non ci fosse mai stato un tradimento. Non c’era in me alcun rancore palese o nascosto, né per la Gorda né per nessun altro. Quello che provavo non era né voluta indifferenza, né riluttanza all’azione; e non era neppure alienazione, né semplice desiderio di solitudine. Era piuttosto un sentimento estraneo di distacco, una capacità di immergermi nel presente senza aver alcun altro pensiero. Il comportamento della gente non mi toccava più poiché non mi aspettavo nulla da nessuno. Una strana pace era diventata la forza dominante della mia esistenza. Sentivo di aver in qualche modo adottato uno dei principi di vita del guerriero: il di- stacco. La Gorda diceva che avevo fatto di più che adottarlo, l’avevo in pratica fagocitato.

Don Juan e io avevamo avuto lunghe discussioni sulla possibilità che un giorno o l’altro avrei proprio fatto questo. Aveva detto che il


distacco non significava automaticamente saggezza, ma che comunque rappresentava un passo avanti perché permetteva al guerriero di darsi una tregua, di riesaminare la situazione, di riconsiderare la sua posizione. Ma per trarre il maggior profitto da questa occasione, diceva, un guerriero doveva combattere senza cedere per tutta una vita.

Avevo dubitato di poter mai provare una tale sensazione. Per quanto avevo potuto rendermi Conto, non era possibile provocarla. Era stato inutile pensare alla sua utilità, o arzigogolare sulle possibilità della sua realizzazione. Durante gli anni in cui avevo frequentato don Juan, avevo senza dubbio provato un progressivo allentarsi dei miei legami personali con il mondo, ma questo era successo sul piano intellettuale; nella mia vita di ogni giorno non avevo subito nessun cambiamento, fino a quando non avevo perso la forma umana.

Consideravo con la Gorda che il concetto della perdita della forma umana si riferisce a una condizione fisica in cui cade l’apprendista al raggiungimento di una certa soglia nei corso delle sue esercitazioni. Comunque sia il risultato finale di questa perdita, per la Gorda e per me consistette, abbastanza stranamente, non solo nel sospirato e desiderato senso di distacco, ma anche nel compimento del nostro elusivo compito di ricordare. E anche in questo caso l’intelletto svolse una parte del tutto trascurabile.

Una notte Gorda e io stavamo discutendo un film. Era andata a vedere un film per adulti, e io ero impaziente di senti re la sua descrizione. Non le era piaciuto affatto. Sosteneva che era una esperienza debilitante, perché essere un guerriero comportava una vita austera in assoluto celibato, come il Nagual Juan Matus.

Le dissi che sapevo per certo che a don Juan le donne piacevano e che non era celibe, e trovavo la cosa simpatica.

« Sei matto! » esclamò con una punta di divertimento nella voce. « Il Nagual era un guerriero perfetto. Non cadde mai nei tranelli della sensualità. »

Volle sapere perché pensavo che don Juan non fosse celibe. Le narrai un incidente successo in Arizona all’inizio del mio apprendistato. Stavo riposando in casa di don Juan dopo una giornata di spossante girovagare. Don Juan sembrava piuttosto nervoso. Continuava ad alzarsi per andare a guardare fuori della porta. Pareva





aspettare qualcuno. Poi, a un certo punto, mi disse che una macchina era appena apparsa alla curva della strada e si dirigeva verso la casa. Disse che era una ragazza, una sua amica, e veniva a portargli delle coperte. Non avevo mai visto don Juan imbarazzato, e mi sentivo molto triste vedendolo così agitato da non sapere cosa fare. Pensai che non volesse che io la conoscessi. Gli proposi di nascondermi ma nella stanza non c’era un luogo adatto, così mi fece sdraiare sul pavimento e mi copri con una stuoia di paglia. Sentii il rumore di un motore che veniva spento e poi, attraverso gli spiragli della stuoia, vidi una ragazza ritta sulla soglia. Era alta, snella e giovanissima. Mi sembrava bella. Don Juan le stava dicendo qualcosa a bassa voce, in un tono intimo. Poi si voltò additandomi.

« Carlos è nascosto sotto la stuoia » disse alla ragazza, a voce alta e distinta. « Salutalo. »

La ragazza mi salutò agitando una mano con un sorriso molto amichevole. Mi sentii stupido e me la presi con don Juan per avermi messo in quella situazione imbarazzante. Mi sembrava evidente che stesse cercando rimedio al suo nervosismo o, ancor peggio, che stesse cercando di pavoneggiarsi con me.

Quando la ragazza se ne fu andata, gli chiesi irritato una spiegazione. Mi rispose candidamente che era stato obbligato a farlo perché mi si vedevano i piedi e lui non sapeva che cos’altro inventare. Questa spiegazione mi chiari tutta la sua manovra; si era fatto bello della sua amichetta con me. Non era possibile che mi si vedessero i piedi perché li avevo ripiegati sotto le cosce. Risi con aria d’intesa e don Juan si sentì obbligato a spiegarmi che gli piacevano le donne, soprattutto quella ragazza.

Non dimenticai mai quell’incidente. Don Juan non ci tornò più sopra. Ogni qualvolta vi accennavo, mi interrompeva. Continuai a pensare in modo ossessivo a quella ragazza. Speravo che un giorno potesse venirmi a trovare, dopo aver letto i miei libri.

La Gorda s’era agitata molto. Mentre parlavo camminava su e giù per la stanza. Stava per piangere. Immaginai che poi. tessero essere in gioco ogni sorta di intricate reti di rapporti. La Gorda era possessiva e stava reagendo come una donna minacciata da una rivale.

« Sei per caso gelosa, Gorda? » chiesi.


« Non fare lo stupido » disse in tono irritato. Io sono un guerriero senza forma. Non mi è rimasta alcuna invidia o gelosia. »

Accennai a un fatto che mi avevano riferito i Genaros, che la Gorda era la donna del Nagual. La sua voce divenne a mala pena udibile.

« Credo di sì » disse, e si sedette sul letto, con uno sguardo vago. « Ho questa sensazione. Non so come, però. In questa vita il Nagual Matus è stato per me quello che è stato per te. Non era un uomo. Era il Nagual. Non gli interessava il sesso. »

Le garantii che io avevo sentito don Juan dichiarare la sua simpatia per quella ragazza.

« Ha detto di aver fatto l’amore con lei? » chiese la Gorda. « No, non l’ha detto, ma si capiva da come ne parlava » dissi. « Ti piacerebbe che il Nagual fosse come te, vero? » fece con un

sogghigno. « Il Nagual era un guerriero impeccabile. » Credevo di aver ragione e di non aver bisogno di cambiare opinione. Solo per assecondare la Gorda dissi che forse quella ragazza

era un’apprendista di don Juan, se non l’amante. Seguì una lunga pausa. Quello che avevo detto ebbe l’effetto di

sconvolgermi. Fino a quel momento non avevo pensato a una simile eventualità. Un pregiudizio mi aveva messo in un vicolo cieco, togliendomi la possibilità di rivedere la mia opinione.

La Gorda mi chiese di descrivere quella ragazza. Non potei farlo. In realtà non avevo badato al suo aspetto. Ero stato troppo irritato. Anche lei era sembrata toccata da quella situazione imbarazzante e si era affrettata ad andarsene.

La Gorda disse che, senza una ragione apparente, sentiva che quella donna doveva essere una figura chiave nella vita del Nagual. Queste parole ci portarono a parlare degli amici di don Juan che noi conoscevamo. Per ore ci dibattemmo nel tentativo di mettere insieme i frammenti di notizie che avevamo sui suoi compagni. Le raccontai delle diverse volte nelle quali don Juan mi aveva portato ad assistere a cerimonie del peyotl. Le descrissi tutti quelli che avevo visto. Non ne riconobbe nessuno. Mi resi allora conto che forse io conoscevo più persone legate a don Juan di quante non ne conoscesse lei. Ma qualcosa di quel che avevo detto le fece scattare il ricordo di una volta in cui aveva visto una ragazza che portava il Nagual e Genaro in una





vetturetta bianca. La donna lasciò i due uomini sulla porta di casa della Gorda e, prima di partire, la guardò attentamente. La Gorda pensava che la ragazza avesse soltanto dato un passaggio al Nagual e a Genaro. Ricordai allora che io ero uscito da sotto la stuoia a casa di don Juan giusto in tempo per veder partire una Volkswagen bianca.

Le ricordai un secondo episodio riguardante un altro amico di don Juan, uno che un giorno, nel mercato di una città del Messico settentrionale, mi aveva dato alcune piante di peyotl. Anche lui mi aveva ossessionato per anni. Si chiamava Vicente. All’udirne il nome il corpo della Gorda reagì come se le avessero toccato un nervo. La sua voce divenne stridula. Mi chiese di ripetere quel nome e descrivere quell’uomo. Di nuovo non riuscii a mettere insieme una descrizione. L’avevo visto solo una volta, per pochi minuti, più di dieci anni prima.

La Gorda e io attraversammo un periodo quasi di rabbia, non l’uno verso l’altro, ma verso quella situazione che ci teneva prigionieri.

L’episodio finale che sollecitò il completamento dei nostri ricordi accadde un giorno in cui avevo il raffreddore e la febbre molto alta. Ero rimasto a letto, semiassopito, con i pensieri che mi vagavano senza meta nella mente. Per tutto il giorno avevo avuto nelle orecchie la melodia di una vecchia canzone messicana. A un certo punto sognavo che qualcuno la stava suonando con la chitarra. Mi lamentai della sua monotonia, e la persona con cui stavo protestando mi scagliò la chitarra contro lo stomaco. Balzai indietro per evitare li colpo, pestai la testa contro il muro e mi svegliai. Non era stato un sogno chiaro, era solo la melodia che mi aveva ossessionato. Non potevo liberarmi dal suono della chitarra; continuava a tornarmi in mente. Rimasi desto a metà, ad ascoltarla. Mi sembrava di star entrando nello stato di sogno — una scena di sogno vivida e particolareggiata m’apparve dinanzi agli occhi. Nella scena c’era una ragazza seduta vicino a me. Potevo distinguere le sue fattezze in tutti i particolari. Non sapevo chi fosse, ma la sua vista mi colpì. Mi svegliai subito. L’ansietà che mi provocava il suo viso era così profonda che mi alzai e cominciai a camminare come un automa avanti e indietro. Sudavo moltissimo e avevo paura di uscire da quella stanza. Non potevo neppure chiamare in aiuto la Gorda. Se ne era tornata in Messico per


alcuni giorni a trovare Josefina. Mi avvolsi un lenzuolo alla vita per sostenere quella parte del corpo. Questo mi fu d’aiuto per placare le onde di energia nervosa che mi attraversavano.

Mentre andavo su e giù, l’immagine cominciò a svanire dalla mia mente, non in un sereno oblio, come avrei desiderato, ma in un intrico di ricordi complessi. Rammentai che una volta mi trovavo seduto su dei sacchi di frumento o di orzo ammucchiati in un granaio. La ragazza stava cantando la vecchia canzone messicana che mi aveva perseguitato, accompagnandosi con la chitarra. Quando feci del sarcasmo su come suonava, lei mi diede una botta nelle costole con il manico della chitarra. C’erano altre persone sedute con me, la Gorda e due uomini. Conoscevo bene gli uomini, ma non riuscivo a ricordare chi diamine fosse la ragazza. Mi sforzavo senza speranza.

Mi coricai di nuovo, tutto un sudore freddo. Volevo riposarmi un po’ prima di cambiarmi il pigiama fradicio. Mentre appoggiavo la testa su un cuscino alto, il mio ricordo sembrò diventare ancora più nitido, e allora seppi chi fosse la suonatrice di chitarra. Era la donna Nagual; l’essere più importante sulla terra per la Gorda e per me. Era l’equivalente femminile dell’uomo Nagual; non la moglie o la compagna, ma la sua controparte. Aveva la calma e l’autorità di un vero capo. Essendo donna, era lei che ci nutriva.

Non osavo spingere la mia memoria troppo lontano. Istintivamente sapevo di non avere la forza di sopportare la pienezza del ricordo. Mi fermai al livello delle sensazioni astratte. Sapevo che lei incarnava l’affetto più puro, spassionato e profondo. Sarebbe stato più esatto dire che la Gorda e io amavamo la donna Nagual più della vita stessa. Che cosa mai ci era capitato per farcela dimenticare?

Quella notte, sdraiato sul letto, arrivai a un punto tale di agitazione da temere per la mia stessa vita. Cominciai a cantilenare alcune parole che divennero per me una forza guida. Solo quando mi fui calmato rammentai che le parole che andavo ripetendomi facevano anche parte di un ricordo che mi si era presentato quella notte; il ricordo di una formula, un incantesimo che mi doveva aiutare in caso di disastri come quello che avevo vissuto.

Mi sono già arreso al potere che governa il mio destino. Ho abbandonato tutto, così non ho nulla da proteggere.





Non ho pensieri, così potrò vedere. Non temo nulla, così mi ricorderò di me stesso.

La formula era seguita da un’altra frase, che al momento mi era incomprensibile.

Calmo e sereno sfreccerò oltre l’Aquila verso la libertà.

L’essere ammalato e febbricitante poteva essere servito, per così dire, da cuscino; forse era stato sufficiente a deviare il colpo diretto di quello che avevo fatto, o, piuttosto, di quello che mi era successo, poiché di mia volontà io non avevo fatto niente.

Fino a quella notte, se avessi esaminato il consuntivo della mia esperienza, avrei potuto dimostrare la continuità della mia esistenza. I nebulosi ricordi della Gorda o la sensazione di aver vissuto in quella casa sulle montagne del Messico centrale rappresentavano, in un certo senso, reali minacce a questa continuità, ma non erano nulla in confronto al ricordo della donna Nagual. Non tanto per le emozioni che coinvolgeva, ma perché me la ero dimenticata; non come si dimentica un nome o una melodia. Non c’era stata traccia di lei nella mia mente, prima di quella rivelazione. Proprio nulla! Poi mi era capitato qualcosa, o qualcosa mi s’era scrollato di dosso, e mi ero ritrovato con il ricordo di un essere importantissimo, che, dal punto di vista della mia esperienza personale fino a quell’istante, non avevo mai incontrato.

Dovetti attendere altri due giorni fino al ritorno della Gorda, prima di poterle narrare quel che mi ero ricordato. Quando giunsi alla descrizione della donna Nagual, la Gorda se ne risovvenne, la sua consapevolezza dipendeva in un certo qual modo dalla mia.

« La ragazza che ho visto nella macchina bianca era la donna Nagual! » esclamò. « E ritornata da me e non sono stata capace di riconoscerla. »

Udii le parole e ne afferrai il significato, ma impiegai un bel po’ prima di mettere a fuoco con la mente quello che aveva detto. La mia attenzione ondeggiava; era come se di fronte agli occhi avessi una luce che poco alla volta s’andava affievolendo. Sapevo che se non


avesse cessato di diminuire sarei morto. Fui preso da una improvvisa convulsione, e mi accorsi di aver fatto combaciare due parti del mio essere che erano state separate; mi resi conto che la ragazza vista in casa di don Juan era la donna Nagual.

In quel momento di agitazione emotiva la Gorda non mi era di aiuto. Il suo umore era contagioso. Stava piangendo senza ritegno. Lo shock emotivo dovuto al ricordo della donna Nagual era stato traumatico per lei.

« Come ho potuto dimenticarla? » diceva fra i singhiozzi.

Mentre si rivolgeva a me, le scorsi negli occhi un lampo di sospetto.

« Davvero non avevi idea della sua esistenza? » mi chiese.

In qualsiasi altra situazione avrei ritenuto impertinente e offensiva la sua domanda, ma in quel momento mi stavo chiedendo la stessa cosa nei suoi riguardi. Mi era sorto il dubbio che potesse saperne più di quanto mi avesse riferito.

« No, assolutamente » dissi. « E tu, Gorda? Sapevi che esisteva?»

Il suo viso assunse una tale espressione di innocenza e di perplessità da fugare tutti i miei dubbi.

« No » rispose. « Non fino ad oggi. Ora so per certo che avevo l’abitudine di sedermi con lei e il Nagual Juan Matus, su quella panchina nella plaza di Oaxaca. Me ne ricordavo da sempre, mi ricordavo i suoi lineamenti, ma pensavo che fosse tutto un sogno. Sapevo e non sapevo. Ma perché pensavo d’averlo sognato? »

Mi colse un attimo di panico. Poi ebbi la completa certezza fisica che, mentre parlava, mi si fosse aperto un passaggio in qualche parte del corpo. In un lampo seppi che anch’io ero solito sedermi su quella panchina con don Juan e la donna Nagual. Allora ricordai la sensazione che avevo provato in ciascuna di quelle occasioni. Era un senso di benessere fisico, di felicità, di soddisfazione che sarebbe impossibile immaginare. Pensavo che don Juan e la donna Nagual erano esseri perfetti, ed ero molto fortunato di stare in loro compagnia. Sedendo su quella panchina, accanto agli esseri più squisiti di questa terra, provai forse il più alto dei sentimenti umani. Una volta dissi a don Juan, ed ero veramente sincero, che avrei voluto morire in quell’istante, in modo da mantenere quel sentimento puro, intatto, libero da ogni corruzione.





Riferii alla Gorda questo ricordo. Disse che capiva cosa volevo dire. Rimanemmo silenziosi un momento, poi la forza di queste reminiscenze ci sospinse verso una pericolosa tristezza, prossima alla disperazione. Dovetti esercitare il più rigoroso controllo delle mie emozioni per non mettermi a piangere. La Gorda singhiozzava, coprendosi il viso con l’avambraccio.

Dopo un poco ci calmammo. La Gorda mi fissò negli occhi. Conoscevo i suoi pensieri. Era come se potessi leggerle le domande nello sguardo. Le stesse domande che mi ossessionavano da giorni. Chi era la donna Nagual? Dove l’avevamo conosciuta? Qual era il suo posto? La conoscevano anche gli altri?

Stavo appunto per dar voce ai miei interrogativi, quando la Gorda mi interruppe.

« Non so proprio » disse in fretta, precedendo la mia domanda. «Contavo che me lo dicessi tu. Non so perché, ma sento che tu mi puoi raccontare tutta la faccenda. »

Lei contava su di me, e io contavo su di lei. Ridemmo all’ironia della nostra situazione. Le chiesi di dirmi tutto quanto sapeva sulla donna Nagual. La Gorda si sforzò due o tre vol te di dire qualcosa, ma sembrava incapace di riordinare le sue idee.

« Non so davvero da che parte cominciare » disse. So solo che le volevo bene.

Le dissi che anch’io provavo la stessa cosa. Una tristezza misteriosa mi coglieva ogni volta che pensavo alla donna Nagual. Mentre parlavo cominciai a tremare.

« Tutt’e due le volevamo bene » disse la Gorda. « Non so perché dico questo, ma so che lei ci possedeva. »

La incitai a chiarire questa frase. Non poteva spiegare perché l’avesse detta. Parlava nervosamente, districando le sue sensazioni. Non riuscivo più a seguirla, sentivo una palpitazione al plesso solare. Una vaga reminiscenza della donna Nagual cominciò a prender forma. Insistei perché la Gorda continuasse a parlare, ripetendo le stesse cose se non aveva altro da dire, tutto purché non si fermasse. Il suono della sua voce sembrava agire per me da canale verso un’altra dimensione, un’altra specie di tempo. Era come se il sangue mi scorresse attraverso il corpo con una pressione inusitata. Mi sentii addosso un formicolio dappertutto, poi mi assalì una strana certezza fisica. Capii all’interno


del mio corpo che la donna Nagual era l’essere che rendeva completo il Nagual. Gli portava pace, pienezza, un senso di protezione, di liberazione.

Dissi alla Gorda che intuivo che la donna Nagual doveva essere la compagna di don Juan. La Gorda mi guardò stupefatta. Scosse lenta la testa da un lato all’altro.

« Non aveva nulla a che fare con il Nagual Juan Matus, idiota » disse in un tono di autorità che non ammetteva replica. « Era destinata a te. Ecco perché noi le apparteniamo. »

Ci fissammo negli occhi. Ero certo che, senza volerlo, stava esprimendo pensieri per lei privi di ogni significato razionale.

« Cosa vuoi dire, che era destinata a me? » le chiesi dopo un lungo silenzio.

« Era la tua compagna » rispose. « Voi due formavate una coppia. E io ero la sua pupilla. E ti incaricò di consegnarmi a lei, un giorno. »

Scongiurai la Gorda di dirmi tutto quello che sapeva, ma sembrava che non sapesse nient’altro. Mi sentivo esausto.

« Dov’è andata? » mi chiese la Gorda. « Non riesco proprio a immaginarmelo. Era con te, non con il Nagual. Ora dovrebbe essere qui con noi. »

Ebbe quindi un altro attacco di incredulità e di paura. Mi accusò di nascondere la donna Nagual a Los Angeles. Cercai di calmare le sue apprensioni. Mi sorpresi a parlare alla Gorda come a un bambino. Mi ascoltava con i segni esteriori della totale attenzione; tuttavia aveva lo sguardo vacuo, fisso nel nulla. Mi venne allora in mente che lei stava usando il suono della mia voce proprio come io avevo usato il suo, come un canale. E sapevo che anche lei ne era consapevole. Continuai a parlare fino a esaurire tutto quanto avevo da dire su quel- l’argomento. Allora accadde qualcos’altro, e mi scoprii ad ascoltare vagamente il suono della mia stessa voce. Stavo parlando alla Gorda senza intenzionale volontà da parte mia. Parole che sembravano essere state rinchiuse dentro di me, una volta liberate, raggiungevano indescrivibili livelli di assurdità. Continuai a parlare finché qualcosa mi fermò. Mi ero ricordato che don Juan aveva detto alla donna Nagual e a me su quella panchina di Oaxaca, di un certo essere la cui presenza aveva rappresentato per lui la sintesi di tutto quello che poteva desiderare o aspettarsi da compagnia umana. Era una donna,





che per lui era stata quello che la donna Nagual era per me, una compagna, una controparte. Lei l’aveva lasciato, proprio come la donna Nagual aveva lasciato me. I suoi sentimenti per lei non erano cambiati, e venivano riaccesi dalla malinconia che certe poesie gli evocavano.

Mi ricordai anche che era la donna Nagual a rifornirmi di libri di poesia. Ne teneva delle pile accatastate nel bagagliaio della macchina. Per suo suggerimento leggevo poesie a don Juan. In un attimo il ricordo fisico della donna Nagual seduta con me sulla panchina acquistò un tale risalto che, senza che me ne accorgessi, mi si riempirono d’aria i polmoni, mi si gonfiò il petto. Fui colto da un opprimente senso di vuoto, più intenso di qualsiasi altra sensazione che avessi mai avuta. Mi accasciai con un dolore lacerante alla scapola destra. C’era ancora dell’altro che sapevo, un ricordo che una parte di me non voleva venisse a galla.

Mi aggrappai a tutto quello che mi rimaneva del mio scudo intellettuale, come all’unico mezzo per recuperare l’equilibrio. Continuai a ripetermi che la Gorda e io avevamo continuato ad agire su due piani completamente separati. Lei ricordava molto più di me, ma non si poneva domande. Non era Stata abituata ad indagare su se stessa o sugli altri. Ma poi mi colpì il pensiero che io non mi trovavo in una situazione migliore; io ero ancora quello sciattone che don Juan mi aveva una volta accusato d’essere. Non avevo mai dimenticato di aver letto poesie a don Juan, eppure non mi era mai passato per la mente di considerare il fatto che non avevo mai posseduto un libro di poesie spagnole, n~ ne avevo mai tenuto uno in macchina.

La Gorda mi strappò alle mie meditazioni. Era sull’orlo d’una crisi isterica. Urlò che aveva appena capito che la donna Nagual doveva essere da qualche parte vicinissima a noi. Proprio come noi due eravamo stati lasciati per ritrovarci, così la donna Nagual era stata lasciata perché ritrovasse noi. Fui quasi convinto dalla forza del suo ragionamento. Eppure qualcosa dentro di me sapeva che non era così. Era la mia memoria interiore, che io non osavo portare a galla.

Volevo iniziare una discussione con la Gorda, ma non ve n era ragione, i baluardi del mio intelletto e le parole erano insufficienti ad assorbire il colpo del ricordo della donna Nagual. Il suo effetto mi faceva vacillare, era più disastroso perfino della paura della morte.


« La donna Nagual è naufragata da qualche parte » disse la Gorda timida. « Si è forse sperduta e noi non facciamo nulla per ritrovarla. »

« No! No! urlai. « Non è più qui! »

Non sapevo proprio perché lo avessi detto, eppure sapevo che era vero. Per un certo tempo affondammo nelle profondità di una malinconia che era impossibile sondare razionalmente. Nella memoria di quel me stesso che conoscevo, provai per la prima volta una sincera tristezza senza limiti, uno spaventoso senso di incompletezza. In qualche parte di me c’era una ferita che era stata ancora riaperta. Questa volta non potevo rifugiarmi, come avevo fatto tante volte nel passato, dietro un velo di mistero e di ignoranza. Il non sapere era stato per me una benedizione. Scivolai per un attimo in un pericoloso sconforto. La Gorda mi fermò.

« Il guerriero è uno che ricerca la libertà » mi disse all’orecchio. « La tristezza non è libertà. Dobbiamo tirarci fuori da questa situazione.»

Come mi aveva detto don Juan, avere un senso di distacco implica avere un momento di pausa per esaminare la situazione. Nella profondità della mia tristezza capivo cosa volesse dire. Avevo il distacco; dipendeva da me cercare di usare la pausa nel modo più corretto.

Non potevo essere sicuro se la mia volontà avesse o meno una parte, ma improvvisamente la mia tristezza svanì; come se non fosse mai esistita. La rapidità del mio cambiamento di umore e la sua radicalità mi allarmavano.

« Ora anche tu sei dove sono io! » esclamò la Gorda quando le descrissi quello che mi era successo. « Dopo tutti questi anni non ho ancora imparato ad abituarmi a essere senza forma. Passo in un attimo da un sentimento all’altro, senza poterci fare nulla. Essendo senza forma potevo essere d’aiuto alle sorelline, ma ero anche in loro balia. Ognuna di loro era abbastanza forte da farmi oscillare da un estremo all’altro. »

« Il problema era che io avevo perso la forma umana prima dite. Se l’avessimo persa insieme, ci saremmo potuti aiutare l’un l’altro; come sono andate le cose io sono stata sballottata su e giù più di quanto non mi piaccia ricordare. »





Dovetti ammettere che le sue dichiarazioni di essere senza forma mi erano sempre sembrate fasulle. Secondo me, perde re la forma umana richiedeva un fattore concomitante essenziale, una fermezza di carattere che, vista la sua instabilità emotiva, andava ben oltre i suoi limiti. Su questa base l’avevo giudicata in modo severo e ingiusto. Avendo perso la forma umana mi era ora facile capire che l’essere senza forma è, caso mai, proprio una situazione che non favorisce la calma e l’equilibrio. Essa non comporta necessariamente una solidità emotiva. Un aspetto del distacco, cioè la capacità di immergersi del tutto in quello che si sta facendo, si estende a ogni aspetto delle proprie attività, compreso quello dell’essere incoerenti ed estremamente meschini. Il vantaggio dell’essere senza forma è che ci concede un attimo di riflessione, purché si abbia l’autodisciplina e il coraggio per utilizzarlo.

Tutto il comportamento passato della Gorda mi divenne infine comprensibile. Per anni era stata senza forma, ma senza avere l’autodisciplina che questa situazione richiede. Quindi era stata in balìa di radicali cambiamenti di umore e di incredibili discrepanze fra intenzioni e azioni.

Dopo aver per la prima volta richiamato alla memoria la donna Nagual, la Gorda e io radunammo le nostre forze e cercammo per intere giornate di tirar fuori altri ricordi, ma sembrava non ce ne fossero più. Io stesso ero ritornato nei luoghi dove ero stato prima di incominciare a ricordare. Intuivo che dentro di me dovevano essere in qualche modo sepolte gran quantità di cose, ma non riuscivo ad arrivarci. La mia mente non presentava la benché minima traccia di altri ricordi.

La Gorda e io passammo un periodo di tremenda confusione e di dubbio. Nel nostro caso essere senza forma significava trovarsi dilaniati dalla più profonda sfiducia immaginabile. Ci sentivamo come cavie nelle mani di don Juan, un individuo che avrebbe dovuto esserci familiare, ma di cui in realtà non sapevamo nulla. Ci alimentavamo l’un l’altro di dubbi e paure. Le discussioni più serie riguardavano materialmente la donna Nagual. Quando volevamo concentrare su di lei la nostra attenzione, il suo ricordo diventava così struggente da sembrare assurdo che avessimo potuto dimenticarla. Ciò dava la stura


a sempre nuove ipotesi riguardanti quello che don Juan ci aveva fatto. Molto facilmente queste congetture finivano col farci sentire di essere stati solo uno strumento nelle sue mani. Ci indignavamo di fronte all’inevitabile conclusione che lui ci aveva manipolati, disorientandoci e rendendoci sconosciuti a noi stessi.

Quando la nostra indignazione era sbollita, incominciava a profilarsi la paura — poiché ci si presentava la tremenda possibilità che don Juan potesse averci fatto cose ancor più dannose.





7

SOGNARE INSIEME

Un giorno, per alleviare un momento la nostra angoscia, lanciai l’idea di abbandonarci al sognare. Appena finito di dar voce alla mia proposta, mi accorsi che la tetraggine che mi perseguitava da giorni poteva trasformarsi radicalmente se solo lo avessi voluto. Capii così che il problema della Gorda e mio era sorto perché c’eravamo involontariamente concentrati sulla paura e sulla sfiducia come se fossero le uniche scelte a nostra disposizione, mentre, senza rendercene conto, avevamo sempre avuto l’alternativa di concentrare di proposito la nostra attenzione sul contrario: il mistero portentoso di quel che ci era successo.

Riferii alla Gorda la mia scoperta. Fu subito d’accordo. Si animò immediatamente, e la cappa della sua tristezza disparve in pochi secondi.

« Che tipo di sogno suggerisci di fare? » mi chiese. « Quanti ce ne sono? » chiesi io. « Possiamo sognare insieme » mi rispose. « Il mio corpo mi dice

che l’abbiamo già fatto. Siamo entrati in un sogno in coppia. Sarà per noi una cosa facile, come lo è stato il vedere insieme. »

« Ma non sappiamo quale sia la procedura per sognare insieme » dissi.

« Non sapevamo come si facesse a vedere insieme eppure abbiamo visto » rispose. « Sono sicura che se ci proviamo ci riusciamo, poiché non c’è gradualità in quel che fa un guerriero. C’è solo il potere personale. E ormai noi lo abbiamo. Dovremmo iniziare il sogno da due posti differenti, il più lontano possibile l’uno dall’altro. Quello che entra per primo nel sogno attende l’altro. Una volta che ci siamo ritrovati, ci prendiamo sotto braccio e avanziamo più a fondo insieme. »


Le dissi che non avevo idea di come aspettarla, se fossi entrato nel sogno per primo. Anche lei non era in grado di spiegarmi come si facesse, ma mi disse che aspettare l’altro sognatore corrispondeva a quello che Josefina aveva chiamato “ghermire”. La Gorda era stata ghermita da Josefina due volte.

« Josefina lo chiamava “ghermire” perché uno di noi doveva afferrare l’altro per il braccio » mi spiegò.

Mi mostrò quindi il modo di intrecciare il suo avambraccio sinistro con il mio avambraccio destro, afferrandomi sotto il gomito.

« Come riusciremo a farlo in sogno? » chiesi.

Per conto mio ritenevo il sogno una delle situazioni più private immaginabili.

« Non lo so, ma io ti afferrerò » disse la Gorda. « Penso che il mio corpo sappia come. Comunque, più ne parleremo, più ci sembrerà difficile.»

Iniziammo il nostro sogno da due località lontane. Potemmo metterci d’accordo solo sull’ora di coricarci, poiché l’entrata nel sogno era qualcosa che non si poteva predisporre in anticipo. La probabilità che toccasse a me aspettare la Gorda mi procurò molta ansia, e non riuscivo a entrare nel sogno con la mia abituale facilità. Finalmente, dopo dieci o quindici minuti di irrequietezza, riuscii a mettermi in quello stato che chiamo di veglia riposante.

Anni prima, quando ero giunto a un buon livello di esperienza nel sognare, avevo chiesto a don Juan se vi erano delle fasi comuni a tutti noi. Mi disse che a una analisi approfondita ogni sognatore appariva differente. Ma parlando con la Gorda scoprii tali rassomiglianze nelle nostre esperienze di sogno che mi arrischiai a costruire un possibile schema di classificazione dei diversi stadi.

La veglia riposante rappresenta lo stato iniziale, uno stato in cui i sensi si assopiscono e ciò nonostante si rimane consci. Nel mio caso io percepivo sempre, in questa situazione, un fiotto di luce rossastra, una luce in tutto uguale a quella che si vede guardando il sole con le palpebre serrate.

La seconda fase del sogno è quella che chiamai veglia dinamica. In questa fase la luce rossastra svanisce, come svanisce la nebbia, e ci si trova a contemplare una scena statica, una sorta di tableau. Si vede





un quadro tridimensionale, un pezzo congelato di qualcosa — un paesaggio, una strada, una casa, una persona, un volto, qualsiasi cosa.

Chiamai la terza fase testimonianza passiva. In essa il sognatore non vede più un pezzetto congelato di mondo ma — testimonio oculare — osserva un evento mentre questo si svolge. E come se la supremazia della vista e dell’udito rendano questa fase del sogno soprattutto riservata agli occhi e alle orecchie.

La quarta fase era quella in cui entravo in azione io. In essa si è spinti a prendere l’iniziativa e darsi da fare a utilizzare al massimo il proprio tempo. La chiamai fase della iniziativa dinamica.

La proposta della Gorda di aspettarmi riguardava lo svolgimento della seconda e della terza parte del nostro sognare insieme. Quando iniziai il secondo stato, la veglia dinamica, vidi in sogno una scena in cui comparivano don Juan e varie altre persone, compresa la Gorda da grassa. Prima che avessi almeno il tempo di considerare quello che stavo vedendo, sentii un tremendo strattone al braccio, e mi resi conto che la “vera” Gorda mi era al fianco. Stava alla mia sinistra e mi aveva afferrato l’avambraccio destro con la mano sinistra. Sentii distintamente che portava la mia mano sul suo avambraccio così che ognuno stringeva il braccio dell’altro. Mi trovai quindi nel terzo stato del sogno, la testimonianza passiva. Don Juan mi stava dicendo che dovevo badare alla Gorda e prendermi cura di lei nel modo più egoista — cioè, come se fosse un altro me stesso.

Il suo gioco di parole mi piacque moltissimo. Il trovarmi lì con lui e con gli altri mi riempiva di una magica felicità. Don Juan continuò spiegandomi che potevo volgere a grandi cose il mio egoismo, e che non sarebbe stato impossibile imbrigliarlo.

Fra le persone radunate lì c’era un diffuso sentimento di cameratismo. Ridevano di quello che mi diceva don Juan, ma senza metterlo in ridicolo. Don Juan diceva che il modo più sicuro di imbrigliare l’egoismo passava attraverso l’attività quotidiana della nostra vita, che io riuscivo in qualsiasi cosa facessi poiché non avevo nessuno a rompermi l’anima, e non mi sarebbe stato impossibile alzarmi in volo da solo come una freccia. Se mi fosse stato affidato il compito di prendermi cura della Gorda, la mia indipendente efficienza sarebbe andata in fumo, e per sopravvivere avrei dovuto allargare il mio egoistico interesse per me stesso fino a includervi la Gorda. Solo


aiutando lei — stava dicendo don Juan nel tono più enfatico — avrei trovato le indicazioni per adempiere al mio vero compito.

La Gorda mi pose le grasse braccia intorno al collo. Don Juan dovette smettere di parlare. Stava ridendo così forte che non riusciva a proseguire. Stavano tutti sghignazzando.

Mi sentivo imbarazzato e irritato con la Gorda. Cercai di svincolarmi dal suo abbraccio, ma aveva le braccia avvinghiate al mio collo. Don Juaø mi fece un gesto delle mani per fermarmi. Disse che il lieve imbarazzo che stavo provando era nulla in confronto a quello che mi aspettava.

Il suono delle risa era assordante. Mi sentivo felicissimo, nonostante fossi preoccupato di dovermi occupare della Gorda, poiché non sapevo quel che avrebbe comportato.

In quell’istante, nel sogno, cambiai il mio punto di vista — o, piuttosto, qualcosa mi spinse fuori della scena e iniziai a guardarmi attorno da spettatore. Eravamo in una casa nel Messico settentrionale; potevo giudicarlo dal paesaggio che era parzialmente visibile da dove mi trovavo. In distanza potevo vedere le montagne. Inoltre ricordavo l’arredamento della casa. Eravamo sul retro, sotto un portico aperto. Alcune persone erano sedute su sedie mastodontiche, la più parte era però in piedi o seduta sul pavimento. Li riconobbi tutti. Erano in sedici. La Gorda era al mio fianco di fronte a don Juan.

Mi accorsi che potevo provare due distinte sensazioni nello stesso tempo. Potevo sia entrare nella scena del sogno e sentire che stavo recuperando un sentimento da tempo perduto, sia assistere alla scena nel mio solito stato d’animo d’ogni giorno. Quando mi tuffavo nella scena del sogno mi sentivo protetto e sicuro; quando vi assistevo da spettatore nel mio umore solito, mi sentivo perso, insicuro, angosciato. Il mio umore non mi piaceva, e quindi mi tuffai nella scena del sogno.

Una grassa Gorda chiese a don Juan, in un tono di voce udibile al di sopra delle risate generali, se io dovevo diventare suo marito. Vi fu un attimo di silenzio. Don Juan sembrava che stesse valutando la risposta da dare. Le dette dei colpetti sul capo e disse che poteva parlare a nome mio e che io sarei stato ben lieto di diventare suo marito. La gente si sbellicava dalle risa. Io ridevo con loro. Il mio corpo si contorceva nella gioia più genuina, eppure sentivo che non





stavo ridendo della Gorda. Non la consideravo una buffona o una stupida. Era una bambina. Don Juan si rivolse a me e disse che io dovevo onorare la Gorda nonostante quello che mi avrebbe fatto, e che dovevo esercitare il mio corpo, mediante la mia interazione con lei, a sentirsi a proprio agio nelle situazioni più difficili. Don Juan si rivolse a tutto il gruppo e disse che era assai più facile cavarsela in condizioni di estrema tensione che essere impeccabili in condizioni normali, a esempio nella interazione con una persona come la Gorda. Don Juan aggiunse che non dovevo irritarmi con la Gorda in nessuna circostanza, perché lei era proprio la mia benefattrice; solo per mezzo suo sarei stato capace di imbrigliare il mio egoismo.

Mi ero talmente immerso nella scena del sogno, che mi ero scordato di essere un sognatore. Una improvvisa pressione sul braccio mi ricordò che stavo sognando. Sentii la presenza della Gorda accanto a me, pur senza vederla. Era solo un tocco, una sensazione tattile sull’avambraccio. Vi concentrai la mia attenzione; sentii su di me una salda presa, e subito la Gorda si materializzò con tutta la persona, come se fosse composta con i fotogrammi sovrapposti di una pellicola. Come gli effetti speciali al cinema, la scena del sogno si dissolse. Al suo posto c’eravamo la Gorda e io che ci guardavamo con le braccia allacciate.

Di nuovo, all’unisono, concentrammo l’attenzione sulla scena del sogno a cui avevamo assistito. A quel punto fui sicuro, al di là di ogni possibile dubbio, che entrambi avevamo visto le stesse cose. Ora don Juan stava dicendo qualcosa alla Gorda, ma non riuscivo a sentirlo. La mia attenzione oscillava fra la terza fase del sognare: la contemplazione passiva e la seconda: la veglia dinamica. Un momento ero con don Juan, una grassa Gorda e altri sedici persone, e il momento successivo mi trovavo con la Gorda di adesso a guardare una scena statica.

Poi un brusco soprassalto nel corpo mi sbalzò a un nuovo livello di attenzione: sentii uno schiocco simile a quello di un pezzo di legno secco che si spezza. Era uno scoppio soffocato, eppure mi parve più un tremendo scrocchiare di giunture. Mi ritrovai nel primo stato del sogno, la veglia riposante. Stavo dormendo, pur tuttavia ero perfettamente conscio. Desideravo rimanere in quello stato di


tranquillità il più a lungo possibile, ma un altro scossone mi svegliò di colpo. Mi ero reso conto che la Gorda e io avevamo sognato insieme.

Ero desideroso più che mai di parlare con lei, che provava lo stesso desiderio. Ci affrettammo a scambiarci le nostre impressioni. Quando ci fummo calmati le chiesi di descrivermi tutto quello che le era successo nel nostro sognare insieme.

« Ti ho aspettato a lungo » disse. « Una parte di me pensava di averti perso, ma un’altra parte pensava che tu fossi nervoso e ti trovassi in difficoltà, così aspettai. »

« Dove mi hai aspettato, Gorda? » chiesi.

« Non so » rispose. « So che ero fuori dalla luce rossastra, ma non potevo vedere nulla. A ripensarci, non vedevo nulla, mi muovevo a tentoni. Forse mi trovavo ancora nella luce rossastra, eppure non era rossa. Il posto dove mi trovavo era soffuso di un pallido color pesca. Poi aprii gli occhi, e tu eri lì. Sembravi pronto a partire, così ti afferrai il braccio. Mi guardai intorno e vidi il Nagual Juan Matus, te, me e altre persone, tutte nella casa di Vicente. Tu eri più giovane, io ero grassa. »

L’accenno alla casa di Vicente mi fece rammentare d’improvviso un episodio che riferii alla Gorda. Una volta, passando in macchina per Zacatecas, nel Messico settentrionale, avevo sentito uno strano impulso ad andare a trovare Vicente, uno degli amici di don Juan, senza rendermi conto che, così facendo, mi inoltravo involontariamente in un territorio a me precluso, poiché don Juan non me lo aveva mai presentato. Vicente, come la donna Nagual, apparteneva a un altro campo, a un altro mondo. Non fu una sorpresa che la Gorda rimanesse così colpita quando le narrai di questa visita. Lo conoscevamo così bene: eravamo intimi come con don Genaro, forse di più. Eppure l’avevamo dimenticato, così come avevamo dimenticato la donna Nagual.

A questo punto la Gorda e io facemmo una ampia digressione. Ci ricordammo che Vicente, Genaro e Silvio Manuel erano amici di don Juan, il suo seguito. Erano legati fra di loro da una specie di giuramento. Non riuscimmo a ricordarci che cosa li avesse uniti così. Vicente non era un indio. Da giovane aveva fatto il farmacista. Era la persona colta del gruppo, il vero guaritore che li manteneva sani. Aveva la passione della botanica. Ero convinto che sapeva più lui





sulle piante di qualsiasi altro essere vivente. Con la Gorda ci ricordammo che era stato Vicente a insegnare a tutti, compreso don Juan, l’uso delle piante medicinali. Mostrava uno speciale interesse per Nestor e tutti noi pensavamo che Nestor sarebbe diventato simile a lui.

« Il ricordo di Vicente mi riporta a pensare a me stessa » disse la Gorda. « Mi fa pensare che tipo di donna insopportabile sono stata. La cosa peggiore che possa capitare a una donna è l’avere figli, avere buchi nel proprio corpo, e continuare a comportarsi come una ragazzina. Ecco qual era il mio problema. Volevo sembrare intelligente ed ero vuota. E loro hanno lasciato che mi rendessi ridicola, mi hanno incoraggiata a fare la cretina. »

« Loro chi? » chiesi.

« Il Nagual e Vicente e tutti quelli che erano in casa di Vicente quando io mi sono comportata in modo così stupido con te.»

Entrambi fummo colti dallo stesso pensiero. Loro avevano lasciato che la Gorda si mostrasse insopportabile solo con me. Nessun altro aveva tollerato le sue insulsaggini, nonostante le avesse provate con tutti.

« Vicente invece mi diede corda » continuò la Gorda. « Stava al mio gioco. Lo chiamavo persino zio. Quando osai chiamare zio Silvio Manuel, mi scorticò quasi le ascelle con quegli artigli di mani che aveva. »

Cercammo di concentrare l’attenzione su Silvio Manuel, ma non riuscivamo a ricordarci che faccia avesse. Sentivamo la sua presenza nella nostra memoria, ma non era una persona, era solo una sensazione.

Per quanto riguardava la scena del sogno, ci ricordammo che era stata la replica fedele di quello che ci era capitato nella realtà in un determinato tempo e luogo; eppure non ci era ancora possibile stabilire quando. Sapevo comunque che mi prendevo cura della Gorda come un mezzo per esercitarmi alle difficoltà delle interazioni con la gente. Era imperativo che mi abituassi a uno stato d’animo sereno per affrontare difficili situazioni sociali, e nessuno avrebbe potuto essere migliore allenatore della Gorda. Gli sprazzi di sbiadite reminiscenze della Gorda grassa nascevano da queste circostanze, poiché avevo seguito alla lettera gli ordini di don Juan.


La Gorda disse che non aveva apprezzato l’atmosfera della scena del sogno. Avrebbe preferito limitarsi a guardare, ma io l’avevo costretta a risuscitare le sue vecchie sensazioni, che le erano tanto odiose. Il suo disagio era così acuto che deliberatamente mi strinse il braccio per obbligarmi a por fine alla nostra partecipazione a qualcosa che le ripugnava.

Il giorno seguente decidemmo l’ora per sognare insieme un’altra volta. Lei incominciò dalla sua camera da letto, e io dal mio studio, ma non successe nulla. Il solo tentativo di entrare nel sogno ci rese esausti. In seguito tentammo per settimane di ripetere la buona riuscita del nostro primo tentativo, ma senza successo. A ogni fallimento cresceva la nostra disperazione e la nostra cupidigia.

Di fronte a questa situazione senza via di uscita decisi che avremmo dovuto posporre per il momento il nostro sognare insieme, ed esaminare più da vicino il processo del sognare, analizzarne il concetto e i procedimenti. All’inizio la Gorda non era d’accordo con me. Per lei l’idea di riesaminare quello che sapevamo sul sognare rappresentava un altro modo di soccombere alla disperazione e alla cupidigia. Preferiva continuare a fare tentativi, anche se inutili. Io insistetti, e alla fine accettò il mio punto di vista, per puro senso di disperazione.

Una notte ci sedemmo, e nel modo più indifferente possibile cominciammo a discutere su quello che sapevamo del sognare. Fu subito evidente che c’erano alcune questioni di base che don Juan aveva messo in particolare risalto.

Prima di tutto c’era l’atto in se stesso. Sembrava che iniziasse come unico stato di consapevolezza a cui si giungeva concentrando la coscienza residua, che si conserva anche dormendo, sugli elementi e sugli aspetti dei propri sogni.

Questo residuo di coscienza, che don Juan chiamava “la seconda attenzione”, veniva messa in moto, sfruttata attraverso la pratica del non-fare. Noi pensavamo che a dare un contributo essenziale al sogno fosse uno stato di quiete mentale, che don Juan aveva definito “interruzione del dialogo interno”, o il “non-fare del parlare a se stesso”. Per insegnarmi a usarlo con disinvoltura, mi faceva camminare per chilometri con lo sguardo immobile e sfuocato, fisso a





un livello un po’ più alto dell’orizzonte, per accentuare la visione peri- ferica. Il suo metodo era efficace sotto due punti di vista: mi permetteva, dopo anni di tentativi, di interrompere il mio dialogo interno ed esercitava la mia attenzione. Obbligandomi a concentrarmi sulla visione periferica, don Juan rafforzava le mie capacità di concentrarmi per lunghi periodi su una sola attività.

Più tardi, quando ero diventato capace di controllare la mia attenzione, e potevo dedicarmi per ore al mio lavoro senza distrarmi — cosa di cui prima non ero mai stato capace — mi disse che il modo migliore per entrare nel sogno era quello di concentrarsi sulla zona proprio alla punta dello sterno, sopra lo stomaco. Diceva che l’attenzione necessaria per sognare emanava di là. L’energia richiesta per muoversi e cercare nel sogno emanava dalla zona quattro o cinque centimetri sotto l’ombelico. Questa energia la chiamava “volontà”, ovvero la capacità di scegliere e di riunire. In una donna sia l’attenzione sia l’energia per sognare vengono dal grembo.

« Il sogno di una donna deve venire dal suo grembo, perché è quello il suo centro » disse la Gorda. « Per iniziare o per smettere di sognare io devo rivolgere l’attenzione al mio grembo. Ho imparato a sentirlo dal di dentro. Vedo per un istante un bagliore rossastro e subito parto. »

« Quanto ci vuole per riuscire a vedere questo bagliore rossastro?» chiesi.

« Pochi secondi. Nel momento in cui fisso l’attenzione sul grembo, sono già nel sogno » continuò. « Non faccio fatica, mai. Le donne sono così. La parte più difficile per una donna è quella di imparare come si comincia; mi sono stati necessari un paio di anni per interrompere il mio dialogo interno concentrando l’attenzione sul grembo. Forse è per questo che una donna ha bisogno di qualcun altro che la sproni. »

« Il Nagual Juan Matus mi metteva dei ciottoli di fiume freddi e bagnati sulla pancia per farmi sentire quella zona. Oppure mi metteva su un peso; avevo un pezzo di piombo che mi aveva procurato lui. Mi faceva chiudere gli occhi e fissare l’attenzione sul punto dov’era il peso. Ogni volta mi addormentavo. Ma questo non lo preoccupava. Non ha nessuna importanza quello che si fa, purché l’attenzione sia rivolta al grembo. Alla fine imparai a concentrarmi su quel punto


senza bisogno di porvi su nulla. Un giorno entrai nel sogno da sola. Sentivo il mio addome proprio nel punto dove per tante volte il Nagual aveva messo il peso, quando mi addormentai all’improvviso, come al solito, solo che qualcosa mi tirava proprio nel grembo. Vidi il bagliore rossastro, e feci un sogno bellissimo. Ma appena tentai di raccontarlo al Nagual, capii che non era stato un sogno normale. Non c’era verso di riuscire a raccontarglielo; mi ero solo sentita molto felice e molto forte. E lui mi disse che era stato un sognare. »

« Da allora non mi mise più pesi addosso. Mi lasciò sognare senza interferire. Di tanto in tanto mi chiedeva di parlargliene e mi dava dei suggerimenti. Ecco il modo giusto di insegnare a sognare. »

La Gorda mi disse che don Juan aveva affermato che qualsiasi cosa poteva servire come non-fare per facilitare il sogno, purché obbligasse l’attenzione a concentrarsi. Per esempio costrinse lei e gli altri apprendisti a fissare foglie e rocce e incoraggiò Pablito a farsi una propria tecnica personale per non-fare. Pablito cominciò con il non- fare del camminare all’indietro. Si spostava lanciando brevi sguardi di lato per darsi una direzione ed evitare di urtare contro gli ostacoli. Gli suggerii di usare uno specchietto retrovisore, e lui elaborò il suggerimento fino a costruirsi un copricapo di legno con un sostegno per due specchietti; a circa quindici centimetri dal viso e a cinque centimetri al di sotto degli occhi i due specchi non gli impedivano la visione frontale, e, grazie all’angolo laterale al quale erano disposti, coprivano tutto il campo visivo posteriore. Pablito si vantava di avere una completa visione periferica del mondo per 360 gradi. Con l’aiuto di questo artificio, Pablito poteva camminare all’indietro come e quanto voleva.

Anche la posizione che si assume per sognare era un punto assai importante.

« Non so perché il Nagual non mi disse fin dall’inizio » continuò la Gorda « che la posizione migliore per incominciare ~, per una donna, quella di sedersi con le gambe incrociate e poi di lasciarsi cadere, come può capitare quando l’attenzione si fissa sul sogno. Il Nagual me lo disse un anno dopo che avevo cominciato. Ora mi seggo in questa posizione per un momento, sento il mio grembo, e comincio subito a sognare. »





All’inizio, proprio come la Gorda, io l’avevo fatto stando sdraiato supino, finché un giorno don Juan non mi aveva consigliato che per conseguire il miglior risultato dovevo sedermi su una morbida stuoia sottile, con le piante dei piedi congiunte, e le cosce a contatto della stuoia. Mi fece notare, poiché avevo le giunture delle anche elastiche, che dovevo esercitarle al massimo, per cercare di far ben aderire le cosce alla stuoia. Aggiunse che se io fossi entrato nel sogno in quella posizione, il mio corpo non sarebbe scivolato o caduto né a sinistra né a destra, ma mi sarei piegato in avanti con il tronco e avrei appoggiato la fronte sui piedi.

Un altro argomento di grande importanza riguardava l’ora in cui sognare. Don Juan ci disse che le ultime ore della notte e quelle del primo mattino erano di gran lunga le migliori. Il motivo per cui le preferiva era quel che lui chiamava una “applicazione pratica” della scienza della stregoneria. Diceva che, poiché si deve sognare in un contesto sociale, si devono ricercare le migliori condizioni di solitudine e di mancanza di disturbo. Il disturbo a cui si riferiva aveva a che fare con l’attenzione della gente, non con una presenza fisica. Per don Juan non aveva senso ritirarsi dal mondo e nascondersi, perché anche soli, in un luogo isolato e deserto, siamo avvolti dall’interferenza dei nostri simili, causata dalla fissazione della loro prima attenzione, che non può essere eliminata. Solo per un breve lasso di tempo, nelle ore in cui molta gente dorme, si può evitare parte della loro fissazione. Allora soltanto la prima attenzione di chi è intorno a noi si assopisce.

Questo lo portò a descriverci la seconda attenzione. Don Juan ci spiegò che l’attenzione necessaria all’inizio del sogno deve essere per forza mantenuta su tutti gli oggetti che nel sogno compaiono. Solo immobilizzando l’attenzione si riesce a far diventare un normale sogno un sogno.

Ci spiegò inoltre che nel sogno si devono usare gli stessi meccanismi dell’attenzione che nella vita d’ogni giorno, che la nostra prima attenzione aveva imparato a concentrarsi sugli oggetti del mondo con grande intensità, per trasformare l’amorfo e caotico dominio della percezione nel mondo ordinato della consapevolezza.

Don Juan ci disse anche che la seconda attenzione svolgeva il compito di richiamo, di sollecitazione delle occasioni. Più la si


esercita, maggiore è la probabilità di raggiungere il risultato desiderato. Ma questo è anche il compito dell’attenzione in generale, un compito dato talmente per scontato nella nostra vita di tutti i giorni, che lo si sta perdendo di vista; se ci imbattiamo in un evento fortuito, ne parliamo in termini di caso o di coincidenza, piuttosto che riconoscere che è stata la nostra attenzione a richiamare quell’evento.

La discussione sulla seconda attenzione preparò il terreno per un altro argomento fondamentale, il corpo sognante. Guidandovela, don Juan affidò alla Gorda il compito di bloccare nel modo più saldo possibile la propria seconda attenzione sui componenti delle sensazioni di volare in sogno.

« Come hai imparato a volare in sogno? » le chiesi. « Te l’ha insegnato qualcuno?

« Il Nagual Juan Matus me l’ha insegnato su questa terra » rispose. « E qualcuno che non sono mai riuscita a vedere me l’ha insegnato in sogno. Era solo una voce che mi diceva quel che dovevo fare. Il Nagual mi affidò il compito di imparare a volare in sogno e la voce mi insegnò come fare. Mi sono poi occorsi degli anni per imparare a trasferirmi dal mio corpo normale, quello che si può toccare, al corpo sognante. »

« Questo me lo devi spiegare, Gorda » dissi.

« Tu stavi imparando a entrare nel tuo corpo sognante quando sognavi di uscire dal tuo corpo continuò lei. Ma, secondo me, il Nagual non ti ha imposto nessun compito specifico, così tu hai proseguito a modo tuo come potevi. A me invece era stato imposto di usare il mio corpo sognante. Lo stesso compito era stato dato alle sorelline. Per quanto mi riguarda, una volta sognai di volare come un aquilone. Lo riferii al Nagual, perché mi era piaciuta la sensazione di librarmi in aria. Prese la cosa molto sul serio e la trasformò in un compito. Disse che non appena si impara a sognare ogni sogno che si ricorda non è più un mero sogno, ma un sognare. »

« Allora cominciai a cercare di volare in sogno. Ma non ci riuscivo; più cercavo di intervenire sul mio sogno, più diventava difficile. Alla fine il Nagual mi disse di interrompere i miei tentativi e lasciare che la cosa succedesse spontaneamente. Poco alla volta cominciai a volare in sogno. Questo accadde quando una voce





cominciò a dirmi cosa dovevo fare. Ho sempre avuto l’impressio