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La sottile arte di fare quello che cazzo ti pare (M. Manson) - Spunti di riflessione

Una raccolta di messaggi stimolanti dal libro di Mark Manson (La sottile arte di fare quello che cazzo ti pare).


Ti sei mai accorto che a volte quando qualcosa t’importa di meno, ti riesce meglio?

Hai mai notato che spesso è la persona meno coinvolta emotivamente nel successo di qualcosa che finisce per ottenerlo?

Che a volte quando smetti di sbatterti, tutto sembra andare a posto?

[...]

Ai tempi dei nostri nonni, se uno si sentiva di merda pensava tra sé: “Perdinci, oggi mi sento proprio una cacca di mucca. Ma, ehi, dev’essere la vita. Torniamo a spalare il fieno”. Ma adesso? Adesso se senti che la tua vita è una merda anche solo per cinque minuti, sei bombardato da trecentocinquanta immagini di persone strafelici e impegnate a vivere le loro vite fantastiche, ed è impossibile non avere la sensazione che ci sia qualcosa che non va in te. È quest’ultima parte a metterci nei guai. Cosa c’è in me che non va?

Per questo sbattersene è fondamentale. Per questo salverà il mondo. E lo farà accettando che il mondo è completamente fottuto e che va bene così, perché così è sempre stato e sempre sarà.

Sbattendotene del fatto che ti senti male, mandi il Ciclo di Risposta Infernale in cortocircuito; ti dici: «Sto di merda, ma chi se ne fotte?».

E poi smetti di odiarti per il fatto che ti senti male.


George Orwell diceva che vedere cos’abbiamo davanti al naso richiede uno sforzo costante. Be’, la soluzione al nostro stress e alla nostra ansia è proprio lì, davanti al nostro naso, e noi siamo troppo impegnati a guardare porno e annunci di apparecchi per addominali che non funzionano, chiedendoci perché non ci stiamo scopando una strafiga bionda con una tartaruga da sogno, per accorgercene.


La nostra crisi non è più materiale; è esistenziale, spirituale. Abbiamo così tanta roba e così tante opportunità che non sappiamo neanche più a cosa dare importanza.

Poiché possiamo vedere o conoscere una quantità infinita di cose, c’è anche un numero infinito di modi in cui possiamo scoprire che siamo inadeguati, che non siamo abbastanza bravi, che le cose non sono fantastiche come potrebbero essere. E questo ci strazia interiormente.

Perché è questo il problema di tutte le stronzate sul “Come Essere Felici” con otto milioni di condivisioni su Facebook degli ultimi anni – quello che nessuno capisce di tutta questa storia:

Desiderare un’esperienza più positiva è di per sé un’esperienza negativa. E, paradossalmente, accettare la propria esperienza negativa è di per sé un’esperienza positiva.

È questo che intendeva il filosofo Alan Watts con il nome di “Legge d’inversione” – l’idea che più ti sforzi di stare continuamente bene, meno sarai soddisfatto, come se inseguire qualcosa non facesse che rinforzare la consapevolezza della sua mancanza.

Quanto più disperatamente desideri essere ricco, tanto più ti sentirai povero e immeritevole, a prescindere da quali siano effettivamente i tuoi guadagni. Quanto più vuoi essere attraente e desiderato, tanto più inizi a vederti brutto, a prescindere dal tuo effettivo aspetto fisico.

[...]

L’aspetto interessante della legge d’inversione è che ha questo nome per un buon motivo: lo sbattimento funziona al contrario. Se inseguire il positivo è negativo, allora inseguire il negativo genera il positivo. Il dolore che insegui in palestra ti dà come risultato generale più salute ed energia. I fallimenti negli affari sono ciò che ti porta a comprendere meglio che cosa è necessario per avere successo. Ammettere apertamente le tue insicurezze ti rende paradossalmente più sicuro di te e più carismatico agli occhi degli altri.


ella vita tutto ciò che conta si conquista superando l’esperienza negativa a esso correlata. Ogni tentativo di sfuggire al negativo, di evitarlo o soffocarlo o silenziarlo, ci si ritorce solo contro. Evitare la sofferenza è una forma di sofferenza. Evitare lo sforzo è uno sforzo. Negare il fallimento è un fallimento. Nascondere una cosa vergognosa è di per sé una forma di vergogna.


Non si può districare il dolore dalla trama della vita, ed estirparlo è non solo impossibile ma distruttivo: disfa anche tutto il resto. Cercare di evitare il dolore significa dargli troppa importanza. Al contrario, se riesci a sbattertene, diventi inarrestabile.

[...]

La maggior parte di noi affronta la vita dando troppa importanza a situazioni che non se la meritano. Diamo troppa importanza al benzinaio maleducato che ci ha dato il resto in monetine da un centesimo. Diamo troppa importanza a quando i nostri colleghi non si prendono il disturbo di farci domande sul nostro weekend strepitoso.

Nel frattempo, le nostre carte di credito sono esaurite, il nostro cane ci odia e Junior sta sniffando metadone nel bagno, eppure noi siamo incazzati per le monetine da un centesimo.

Guarda, funziona così. Un giorno morirai. So che è evidente, ma volevo ricordartelo nel caso te ne fossi scordato. Tu e tutti quelli che conosci moriranno presto. E nel poco tempo che ci separa da quel momento, hai un numero limitato di energie da investire. Molto poche, in effetti. E se continui a dare importanza a tutto e tutti senza un pensiero o una scelta cosciente – be’, allora sei fottuto.

C’è un’arte sottile nello sbattersene. E anche se il concetto può risultare ridicolo e io posso sembrare uno stronzo, sto parlando essenzialmente d’imparare a concentrarti e dare una priorità efficace ai tuoi pensieri – imparare a scegliere ciò che t’importa e ciò che non t’importa sulla base di valori personali finemente perfezionati. La cosa è incredibilmente difficile. Per riuscirci è necessaria un’intera vita di disciplina ed esercizio. E fallirai regolarmente. Ma è forse lo sforzo più degno che uno possa intraprendere nella propria esistenza.

Perché quando ti sbatti troppo indiscriminatamente – quando dai importanza a tutto e tutti – hai la perpetua sensazione di meritare di essere sempre felice e a tuo agio, che tutto debba essere esattamente come vuoi tu. È una malattia, questa. E ti divorerà vivo. Vedrai ogni avversità come un’ingiustizia, ogni sfida come un fallimento, ogni inconveniente come un’offesa personale, ogni discussione come un tradimento. Sarai confinato nell’inferno patetico del tuo cervello, bruciando di narcisismo e spacconate, girando a vuoto nel tuo personale Ciclo di Risposta Infernale, sempre in movimento ma senza arrivare mai da nessuna parte.

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Che cosa significa sbattersene? Diamo un’occhiata a tre “sottigliezze” che dovrebbero aiutarci a chiarire la questione.

Sottigliezza #1: Sbattersene non significa essere indifferenti; significa sentirsi a proprio agio con la propria diversità.

Non puoi essere una presenza importante e determinante per alcuni senza essere anche una barzelletta e un imbarazzo per altri. È semplicemente impossibile. Perché non c’è nulla di simile all’assenza di avversità.


Sottigliezza #2: Per sbattertene delle avversità, devi prima dare valore a qualcosa di più importante.


Sottigliezza #3: Che tu te ne renda conto o no, scegli sempre per cosa sbatterti.

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Per me l’illuminazione pratica consiste nel cominciare ad accettare l’idea che un po’ di sofferenza è sempre inevitabile – che qualunque cosa tu faccia, la vita è costituita di fallimenti, perdite, rimpianti e anche morte. Perché una volta che inizi a sentirti a tuo agio con la merda che la vita ti tira addosso (e te ne tirerà tanta, fidati), diventi invincibile a livello spirituale.

A questo libro non frega niente di alleviare i tuoi problemi o il tuo dolore. E proprio per questo motivo saprai che è onesto.

Al contrario, questo libro trasformerà il tuo dolore in uno strumento, il tuo trauma in potere e i tuoi problemi in problemi leggermente migliori.

Questo libro non t’insegnerà a ottenere o guadagnare qualcosa, ma piuttosto a perdere e lasciar andare. T’insegnerà a fare l’inventario della tua vita e a liberarti di tutto tranne che delle cose più importanti. T’insegnerà a chiudere gli occhi e confidare nel fatto che puoi cadere all’indietro ed essere comunque okay. T’insegnerà a sbatterti di meno.

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C’è una premessa che soggiace a molti dei nostri credi e supposizioni, ovvero quella che la felicità sia algoritmica, che sia il risultato di sforzo e impegno e lavoro, un po’ come essere accettati in una facoltà di Legge o costruire qualcosa di molto elaborato con i Lego. Se raggiungo X, allora posso essere felice. Se ho l’aspetto di Y, allora posso essere felice. Se posso stare con qualcuno come Z, allora posso essere felice.

Questa premessa, però, è il problema. La felicità non è un’equazione risolvibile. L’insoddisfazione e il disagio sono parti integranti della natura umana e, come vedremo, componenti necessarie alla creazione di una felicità costante.

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Come il dolore fisico, quello psicologico segnala qualche sbilanciamento, qualche limite infranto. E come quello fisico, il dolore psicologico non è sempre necessariamente cattivo o anche solo indesiderabile. In alcuni casi, sperimentare un dolore emotivo o psicologico può essere salutare o necessario.

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Una domanda interessante, una domanda che la maggior parte della gente non prende mai in considerazione, è: «Quale dolore vuoi nella tua vita? Per cosa sei disposto a lottare?». Perché questo sembra determinare in modo molto più decisivo quello che diventeranno le nostre vite.

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Per misurare davvero l’autostima non bisogna guardare come si vivono le esperienze positive, ma quelle negative.

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La diffusione delle tecnologie e del marketing di massa sta mandando a puttane le aspettative personali di molti. L’inondazione dell’eccezionale fa sentire le persone inadeguate, come se per essere notate o anche solo prese in considerazione dovessero essere più estreme, più radicali e più sicure di sé.

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La strada verso una buona salute emotiva, come per quella fisica, consiste nel mangiare le verdure – ovvero, accettare le verità insapori e banali dell’esistenza: verità come “Le tue azioni non hanno molta importanza nel grande schema delle cose” e “La stragrande maggioranza della tua vita sarà noiosa e non degna di nota, e va bene così”. Questo piatto di verdure all’inizio avrà un sapore cattivo. Molto cattivo. Cercherai di evitarlo.

Ma una volta ingerito, il tuo corpo si risveglierà sentendosi molto più forte e più vivo. Alla fine, la pressione costante di essere incredibile, il nuovo Numero Uno, non peserà più sulle tue spalle. Lo stress e l’ansia di sentirsi sempre inadeguato e di dover dimostrare costantemente il tuo valore si dissiperanno. E conoscere e accettare la banalità della tua esistenza ti renderà libero di realizzare davvero quello che vuoi, senza giudizio o aspettative arroganti.

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La certezza è nemica della crescita. Non c’è nulla di certo finché non accade – e anche a quel punto, resta discutibile. Per questo motivo perché avvenga una crescita di qualunque tipo è necessario accettare le inevitabili imperfezioni dei nostri valori.

Invece di puntare alla certezza, dovremmo essere costantemente alla ricerca del dubbio: dubbio sulle nostre convinzioni, dubbio sui nostri sentimenti, dubbio su cosa potrebbe avere in serbo per noi il futuro se non usciamo e non lo creiamo con le nostre mani. Invece di cercare di avere sempre ragione, dovremmo concentrarci su come ci sbagliamo di continuo. Perché è così.

Sbagliare ci apre alla possibilità del cambiamento. Sbagliare ci offre l’occasione di crescere.

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Proprio come guardiamo con orrore al modo in cui vivevano le persone cinquecento anni fa, immagino che tra cinquecento anni la gente riderà di noi e delle nostre attuali certezze. Rideranno di come lasciavamo che i soldi e i lavori definissero le nostre vite. Rideranno di quanto ci faceva paura mostrare apprezzamento verso le persone per noi più importanti, ma coprivamo di elogi figure pubbliche del tutto immeritevoli. Rideranno dei nostri riti e delle nostre superstizioni, delle nostre preoccupazioni e delle nostre guerre; resteranno a bocca aperta di fronte alle nostre crudeltà. Studieranno la nostra arte e discuteranno sulla nostra storia. Comprenderanno sul nostro conto verità di cui nessuno di noi è ancora al corrente.

E si sbaglieranno anche loro. Soltanto un po’ meno di quanto ci sbagliavamo noi.

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I nostri cervelli sono macchine di senso. Ciò che consideriamo “senso” nasce dalle associazioni che i nostri cervelli fanno tra due o più esperienze. Premiamo un pulsante, poi vediamo accendersi una luce; presumiamo che il pulsante l’abbia fatta accendere. È questa, nel profondo, la base del senso. Pulsante, luce; luce, pulsante. Vediamo una sedia. Notiamo che è grigia. Il nostro cervello fa dunque l’associazione tra il colore (grigio) e l’oggetto (sedia) e forma il significato: “La sedia è grigia”.

Le nostre menti ronzano di continuo, generando sempre più associazioni per aiutarci a comprendere e controllare l’ambiente circostante. Tutto ciò che riguarda le nostre esperienze, interne ed esterne, genera associazioni e connessioni nuove all’interno della nostra mente.

Ma ci sono due problemi. Primo, il cervello è imperfetto. Travisiamo le cose che vediamo e sentiamo. Dimentichiamo o fraintendiamo gli eventi molto facilmente.

Secondo, una volta creato il significato, i nostri cervelli sono progettati per aggrapparvisi. Tendiamo a privilegiarlo e non vogliamo rinunciarvi. Anche se vediamo prove che lo contraddicono, spesso le ignoriamo e restiamo comunque fedeli alle nostre convinzioni.

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Purtroppo, la maggior parte di quello che finiamo per “conoscere” e credere è il prodotto delle inaccuratezze innate e dei preconcetti presenti nel nostro cervello. Molti o anche quasi tutti i nostri valori sono prodotti da eventi che non sono indicativi del mondo intero, o sono il risultato di un passato completamente frainteso.

Il risultato? La maggior parte delle nostre convinzioni è errata. O, più precisamente, tutte le convinzioni sono errate – alcune soltanto meno delle altre. La mente umana è un guazzabuglio di inaccuratezze. E anche se questo può metterti a disagio, è un concetto incredibilmente importante da accettare.

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Non importa quanto siamo onesti e ben intenzionati, inganniamo di continuo noi stessi e gli altri per il semplice fatto che il nostro cervello è progettato per essere efficiente, non accurato.

Non solo la nostra memoria fa schifo – al punto che la testimonianza oculare non è presa necessariamente sul serio nei tribunali – ma i nostri cervelli funzionano in modo orribilmente fazioso.

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Molti saggi ti dicono di «fidarti di te stesso», «seguire il tuo istinto» e ogni altro genere di piacevole cliché.

Ma forse il segreto sta nel dare a noi stessi meno fiducia. Dopo tutto, se i nostri cuori e le nostre menti sono così inattendibili, dovremmo forse mettere più in dubbio le nostre intenzioni e motivazioni. Se tutti quanti ci sbagliamo, di continuo, lo scetticismo nei confronti di noi stessi e la sfida rigorosa alle nostre convinzioni e supposizioni non è forse l’unica via logica?

Può sembrare spaventoso e autodistruttivo. Ma in realtà è praticamente il contrario. Non è solo l’opzione più sicura, è anche liberatoria.

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Più ti sforzi di essere certo di qualcosa, più ti sentirai incerto e insicuro.

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L’incertezza è alla base di ogni progresso e di ogni crescita. Come dice il vecchio adagio, chi crede di sapere tutto non impara niente. Non possiamo imparare nulla senza prima non sapere qualcosa. Più ammettiamo di non sapere, più opportunità abbiamo di apprendere.

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“Conoscere te stesso” o “trovare te stesso” può essere pericoloso. Può bloccarti in un ruolo rigido e in aspettative non necessarie. Può impedirti di accedere al tuo potenziale interno e a opportunità esterne.

Io dico di non trovarti. Dico di non sapere mai chi sei. Perché è questo che continua a farti lottare e scoprire cose nuove. E ti costringe a restare umile nei tuoi giudizi e ad accettare le differenze negli altri.

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Il buddismo sostiene che la tua idea di chi “sei” è una costruzione mentale arbitraria e che dovresti proprio abbandonare l’idea che la tua “identità” esista; che tutti i parametri arbitrari con cui ti definisci in realtà t’intrappolano, e faresti perciò meglio a lasciar perdere. In un certo senso, si potrebbe dire che il buddismo t’incoraggia a sbattertene.

Sembra bislacco, ma questo approccio alla vita ha alcuni vantaggi psicologici. Quando rinunciamo alle storie che ci raccontiamo sul nostro conto, siamo finalmente liberi di agire (e fallire) e crescere.

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Il mio consiglio: non essere speciale; non essere unico. Ridefinisci i tuoi metri di giudizio in modi allargati e banali. Non scegliere di misurarti come stella nascente o genio non ancora scoperto. Non scegliere di misurarti come vittima orribile o fallimento penoso. Al contrario, misurati sulla base di identità più ordinarie: uno studente, un partner, un amico, un creatore.

Più è ristretta e rara l’identità che ti scegli, più tutto sembrerà minacciarla. Proprio per questo, definisciti nel modo più semplice e ordinario possibile.

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Questo significa spesso rinunciare a qualche idea grandiosa sul tuo conto: di essere unicamente intelligente, spettacolarmente talentuoso, troppo attraente per non mettere soggezione, o vittimizzato in modi che gli altri non potrebbero neanche immaginare. Significa rinunciare alla convinzione che tutto ti sia dovuto e che il mondo ti debba qualcosa. Significa rinunciare alla scorta di esaltazioni emotive che ti sostenta da anni. Come un tossico che rinuncia all’ago, quando inizierai a rinunciare a queste cose dovrai passare per la fase dell’astinenza. Ma ne uscirai sentendoti molto meglio.

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Vale la pena di ricordare che affinché si verifichi un qualunque cambiamento nella tua vita, devi sbagliarti su qualcosa. Se te ne stai lì seduto, infelice giorno dopo giorno, significa che stai già sbagliando qualcosa di grosso, e finché non sei in grado di metterti in dubbio per scoprire di cosa si tratta, non cambierà nulla.

Ecco alcune domande che ti aiuteranno ad aggiungere un po’ d’incertezza alla tua vita.

Domanda #1: E se mi sbaglio?

Domanda #2: Cosa significherebbe se mi sbagliassi?

Domanda #3: Sbagliarsi creerebbe un problema migliore o peggiore di quello attuale, tanto per me quanto per gli altri?

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Il fallimento è la strada da seguire.

Dico di aver avuto fortuna perché quando sono entrato nel mondo degli adulti ero già un fallito. Ho iniziato dal fondo.

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L’idea di aprire un blog e iniziare una stupida attività su Internet non sembra così spaventosa. Se anche ogni mio progetto fosse fallito, se ogni mio post fosse rimasto non letto, non avrei fatto che ritrovarmi esattamente da dove ero partito. Quindi perché non provarci?

Il fallimento è di per sé un concetto relativo. Se il mio metro di giudizio fosse stato diventare un rivoluzionario anarco-comunista, la mia totale incapacità di fare soldi tra il 2007 e il 2008 avrebbe rappresentato un successo travolgente.

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Mi posi una semplice domanda: «Preferirei guadagnare bene facendo un lavoro che odio, o giocare a fare l’imprenditore internettiano e restare al verde per qualche tempo?». Per me la risposta era chiara e immediata: la seconda. Poi mi chiesi: «Se faccio un tentativo e tra qualche anno fallisco e devo trovarmi lo stesso un lavoro, avrò perso davvero qualcosa?». La risposta era no. Invece di essere un disoccupato squattrinato e senza esperienza a ventidue anni, lo sarei stato a venticinque. Chi se ne frega?

Con questo valore, fallire sarebbe stato rifiutarmi d’inseguire i miei progetti – e non essere al verde, dormire sul divano di amici e parenti (cosa che continuai a fare per quasi tutti i due anni successivi), e avere un curriculum vuoto.

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Qualunque miglioramento è basato su migliaia di piccoli fallimenti, e l’ordine di grandezza del tuo successo dipende da quante volte hai fallito. Se qualcuno è più bravo di te in qualcosa, probabilmente è perché ha fallito più volte. Se qualcuno è meno bravo, probabilmente non è passato per tutte le dolorose esperienze d’apprendimento per cui sei passato tu.

Se pensi a un bambino che sta imparando a camminare, sai che cadrà e si farà male centinaia di volte. Ma non si fermerà mai a pensare: “Oh, camminare probabilmente non fa per me. Non sono bravo”.

Evitare il fallimento è qualcosa che impariamo più tardi nella vita.

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Per esempio, se mi misuro in base allo standard del “Riuscire a piacere a tutti”, sarò in ansia, perché il fallimento è definito al cento percento dalle azioni degli altri, non dalle mie. Non ho il controllo; perciò il mio valore dipende dal giudizio altrui.

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I valori del cazzo fanno riferimento a obiettivi esterni e tangibili al di fuori del nostro controllo. Perseguire questi obiettivi genera molta ansia. E se anche riusciamo a raggiungerli, ci fanno sentire vuoti e spenti.

I valori migliori, come abbiamo visto, sono orientati al processo. Qualcosa come “Esprimermi con onestà verso gli altri”, un parametro del valore dell’“onestà”, non finisce mai del tutto; è un problema che ci impone di metterci costantemente in gioco. Ogni nuova conversazione, ogni nuova relazione porta con sé nuove sfide e occasioni di esprimersi onestamente. Il valore è un processo continuo che sfida il completamento.

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Picasso è rimasto prolifico per tutta la vita. Ha vissuto fino a novant’anni suonati e ha continuato a produrre arte fino alla fine. Se il suo metro di giudizio fosse stato “diventare famoso” o “fare un fracco di soldi nel mondo dell’arte” o “dipingere mille quadri”, a un certo punto del suo percorso si sarebbe inaridito. Sarebbe stato preso dall’ansia o dal dubbio. Probabilmente non sarebbe più migliorato e non avrebbe innovato la sua arte come fece decennio dopo decennio.

La ragione del successo di Picasso è esattamente la stessa per cui, da vecchio, era felice di scarabocchiare da solo su un tovagliolo in un bar. Il suo valore sottostante era semplice e umile. Ed era infinito. Era il valore dell’“onesta espressione”. Ed è questo che rendeva tanto prezioso quel tovagliolo.

[...]

I cambiamenti di prospettiva più radicali si verificano spesso in coda ai nostri momenti peggiori. È solo quando proviamo un dolore intenso che siamo disposti a esaminare i nostri valori e chiederci perché ci stanno tradendo. Abbiamo bisogno di qualche sorta di crisi esistenziale per guardare obiettivamente il modo in cui stiamo dando significato alla nostra vita, e prendere poi in considerazione l’idea di cambiarlo.

Puoi definirlo «toccare il fondo» o «avere una crisi esistenziale». Io preferisco chiamarlo «sopportare la tempesta di merda». Scegli il nome che preferisci.

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E forse ti trovi in quella situazione proprio adesso. Forse stai attraversando la sfida più significativa di tutta la tua vita e sei confuso, perché ciò che pensavi fosse vero e normale e giusto si è rivelato l’opposto.

Va bene – è l’inizio. Non posso insistere abbastanza su questo punto, ma il dolore fa parte del processo. È importante viverlo. Perché se ti limiti a inseguire le esaltazioni per soffocarlo, se continui a viziarti con la convinzione che tutto ti sia dovuto e con un illusorio pensiero positivo, a esagerare con droghe o attività varie, non genererai mai la motivazione necessaria a un vero cambiamento.

...

Tu non sai niente. Anche quando pensi di saperlo, in realtà non sai mai che cazzo stai facendo. Quindi, davvero, cos’hai da perdere?

Vivere significa non sapere eppure agire lo stesso. Tutta la vita è così. Non cambia mai. Anche quando sei felice. Anche quando stai scorreggiando polvere di fata. Anche quando hai vinto alla lotteria e ti sei comprato una piccola flotta di moto d’acqua, non sai comunque che cazzo stai facendo. Non dimenticartelo mai. E non averne mai paura.

[...]

Il principio del “fare qualcosa” non ci aiuta soltanto a sconfiggere la procrastinazione, ma è anche un processo attraverso cui adottiamo nuovi valori. Se siamo nel mezzo di una tempesta esistenziale e tutto sembra privo di senso – se tutti i parametri con cui eri abituato a misurarti si sono rivelati inefficaci e non hai idea di cosa succederà, se sai che ti stai facendo del male inseguendo falsi sogni, o sai che c’è qualche metro di giudizio migliore con cui dovresti misurarti ma non sai come – la risposta è la stessa:

Fai qualcosa.

Quel “qualcosa” può essere l’azione più insignificante che ti porterà a qualcos’altro. Può essere di tutto.

[...]

Il desiderio di evitare il rifiuto a ogni costo, di evitare lo scontro e il conflitto, il desiderio di cercare di accettare tutto allo stesso modo e di rendere tutto coerente e armonioso, è una forma profonda e sottile di egocentrismo. Le persone egocentriche, convinte di meritare di sentirsi bene di continuo, evitano sempre i rifiuti perché rifiutare qualcosa farebbe stare male loro stesse o qualcun altro. Ed evitando di rifiutare qualunque cosa, vivono una vita priva di valori, guidata dal piacere e narcisistica. L’unica cosa importante è mantenere un altro po’ l’esaltazione, per evitare gli inevitabili fallimenti della vita, per fingere che non esista la sofferenza.


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