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Siamo fottuti... Ma forse c’è ancora una speranza - M. Manson - spunti di riflessione

(riflessioni tratte da "Siamo fottuti... Ma forse c’è ancora una speranza - M. Manson")



Al giorno d’oggi sembra che gran parte del mondo sia nella merda. Non al livello dell’Olocausto nazista (neanche lontanamente), ma comunque nella merda.

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Se lavorassi da Starbucks, invece di scrivere sui bicchieri di carta il nome del cliente, scriverei quanto segue: Un giorno tu e chiunque ami morirete. E quello che dici e fai non avrà alcuna importanza, se non per un ristrettissimo numero di persone per un brevissimo lasso di tempo. È la Scomoda Verità della vita. Qualsiasi tua azione o pensiero non è altro che un escamotage per evitarla. Non siamo altro che insulsa polvere cosmica che ballonzola e girovaga in un minuscolo puntino blu. Ci crediamo importanti. Ci immaginiamo scopi. Ma siamo insignificanti. Goditi il tuo cazzo di caffè.

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Ma sul serio, in tutta coscienza, come si fa ad augurare a qualcuno una buona giornata, sapendo che ogni pensiero e motivazione che ha nasce dal bisogno incessante di evitare l’insensatezza dell’esistenza umana?

Nell’infinità dello spazio-tempo, l’universo se ne frega se l’operazione all’anca di tua madre va bene, se i tuoi figli vanno all’università o se secondo il tuo capo hai creato un foglio di calcolo da paura. Se ne frega se a vincere le presidenziali sono i democratici o i repubblicani. Se ne frega se un personaggio famoso viene paparazzato a sniffare coca mentre si spara una sega nel bagno dell’aeroporto (di nuovo). Se ne frega se le foreste bruciano, i ghiacciai si sciolgono, il livello del mare si alza, se le temperature si fanno roventi o veniamo polverizzati da una superiore razza aliena. Importa a te. Importa a te e ti affanni ad autoconvincerti che, siccome ti importa, dev’esserci per forza un qualche grande significato cosmico dietro.

Se ti importa è perché sotto sotto hai bisogno di sentirti importante per scansare la Scomoda Verità, per scansare l’incomprensibilità della tua esistenza, per evitare di venire schiacciato dal peso della tua insulsaggine materiale. Allora, come me e chiunque altro, proietti quest’immaginaria parvenza di senso sul mondo che ti circonda per infonderti speranza.

Troppo presto per un discorsone del genere?

Ecco un altro caffè. Ti ho fatto pure una faccina sorridente sulla schiuma. Non è carina? Aspetto che la posti su Instagram. Okay, dove eravamo rimasti? Ah, sì! L’incomprensibilità dell’esistenza… Giusto.

Ora, probabilmente starai pensando: “Be’, Mark, secondo me siamo tutti al mondo per un motivo, nulla accade per caso, e chiunque è importante perché le nostre azioni condizionano qualcuno, e se possiamo aiutare anche una sola persona ne vale la pena, no?”.

Che tenerone che sei! Vedi, a parlare è la tua speranza. È una storiella costruita dalla tua mente per darti un motivo per svegliarti al mattino: qualcosa deve pur importare, perché se nulla importa non c’è motivo di continuare a vivere. E una qualche forma di altruismo o attenuazione delle sofferenze è sempre un ottimo stimolo per darci la sensazione che valga la pena di fare qualcosa.

Per andare avanti, alla nostra psiche serve speranza quanto l’acqua a un pesce. La speranza è il carburante per il nostro motore mentale. È il burro sulla fetta biscottata. È una caterva di metafore scontate. Senza la speranza, il nostro propulsore mentale si ingolfa o si spegne.

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È la Scomoda Verità, la silente presa di coscienza che, rispetto all’infinito, qualunque cosa a cui potremmo tenere rasenta lo zero.

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Ogni volta che affrontiamo un’avversità, la nostra psiche costruisce storielle simili, racconti sul passato e sul futuro che ci inventiamo a nostro uso e consumo. E queste storie di speranza sono da alimentare continuamente, anche se diventano assurde o deleterie, perché sono l’unica forza stabilizzante che protegge la nostra mente dalla Scomoda Verità.

Sono questi racconti di speranza a darci la sensazione di avere uno scopo nella vita. Non implicano soltanto che il futuro ci riserverà davvero qualcosa di meglio, ma pure che possiamo combinare qualcosa nella vita. Quando qualcuno parla e straparla del suo bisogno di trovare «uno scopo nella vita», significa che non vede più cosa conta, come impiegare bene il tempo limitato che ha a disposizione su questo pianeta.

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Non è necessario che le storie che ci inventiamo siano di stampo religioso. Possono essere di qualunque tipo. Questo libro è la mia piccola fonte di speranza. Mi dà uno scopo, mi dà un senso. E la storia di speranza che mi sono creato è che secondo me questo libro potrebbe aiutare qualcuno, potrebbe migliorare un pochino sia la mia vita che il mondo.

Ne ho la certezza assoluta? No. Ma è la mia storia prima/dopo, e mi ci aggrappo con tutte le forze. È il motivo per cui mi alzo al mattino e sono felice della vita che ho. E non è una cosa brutta, anzi, è l’unica cosa che conta. Per certe persone la storia prima/dopo è tirare su bene i propri figli. Per altre è salvare il pianeta. Per altre è fare soldi a palate e comprarsi una barca megagalattica. Per altre ancora è semplicemente migliorare a golf. Per un motivo o per l’altro, consapevole o no, ciascuno di noi ha scelto di credere a una storia. Non importa se trovi speranza tramite la fede religiosa, una teoria empirica, un’intuizione o una tesi ponderata… il risultato è lo stesso: sei in qualche modo convinto che (a) c’è un margine di crescita, di miglioramento o di salvezza nel futuro; e (b) in qualche modo possiamo raggiungerlo. Punto. Giorno dopo giorno, anno dopo anno, la nostra vita si costruisce tramite queste storie di speranza che si accumulano all’infinito. Sono la carota psicologica che penzola del bastone. Se ti pare un discorso nichilista, per favore, non farti un’idea sbagliata.

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Per creare e coltivare la speranza ci servono tre cose: sentire di avere il controllo, credere nel valore di qualcosa e avere una comunità. Il “controllo” ci dà la sensazione di avere in mano la nostra vita, di poter decidere il nostro destino. I “valori” ci spingono a cercare qualcosa di importante per il quale impegnarci, un miglioramento per cui valga la pena di lottare. E le “comunità” ci fanno sentire di appartenere a un gruppo che dà a determinate cose lo stesso valore che diamo noi e si impegna al fine di ottenerle. Senza una comunità ci sentiamo isolati e i nostri valori perdono senso. Senza i valori sembra che non valga la pena di perseguire nulla. E senza il controllo ci sentiamo impossibilitati a perseguire qualsiasi cosa. Basta perdere una sola di queste condizioni e vengono a mancare anche le altre due. Basta perderne una e viene a mancare la speranza.

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Un adolescente dirà che ti ama ma concepisce l’amore come qualcosa che gli permetterà di ottenere altro in cambio, come in un mercato delle emozioni in cui ciascuno porta ciò che ha da offrire e negozia con gli altri per strappare l’affare migliore. Un adulto amerà liberamente, senza aspettarsi nulla in cambio, perché sa che è l’unica condizione che rende l’amore sincero. Un adulto farà un regalo senza aspettarsi nulla in cambio, perché altrimenti verrebbe meno il senso del regalo. I principi degli adulti sono incondizionati, ovvero non si raggiungono tramite altri mezzi. Sono il fine in sé e per sé.


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Vivere bene non significa evitare di soffrire; significa soffrire per i motivi giusti. Perché se siamo costretti a soffrire per il solo fatto di esistere, tanto vale imparare come soffrire bene.

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Nel 2011 Nassim Taleb ha scritto un saggio su un concetto che ha denominato “antifragilità”. In esso Taleb sostiene che mentre certi sistemi sottoposti alla pressione di forze esterne si indeboliscono, altri si rafforzano.

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Il corpo umano può prendere entrambe le direzioni, a seconda di come lo impieghi. Se muovi il culo e ti metti a cercare attivamente il dolore, il tuo corpo diventerà antifragile, nel senso che si rafforzerà con l’aumentare dello stress e della fatica a cui lo sottoponi. Spezzarsi la schiena con lo sport o il lavoro fisico aumenta la muscolatura e la densità ossea, migliora la circolazione e regala un gran bel culo. Se invece si evitano lo stress e il dolore (ossia, se te ne stai stravaccato tutto il giorno sul divano a guardare Netflix), si atrofizzeranno i muscoli, si indeboliranno le ossa e ci si debiliterà.

La mente umana funziona allo stesso modo. Può essere fragile o antifragile a seconda di come la impieghi. Di fronte al caos o al disordine, la nostra mente inizia a cercare un senso, a desumere principi e creare schemi mentali, a pronosticare eventi futuri e valutare il passato. Si chiama “imparare” e ci rende persone migliori permettendoci di trarre vantaggio dai disordini e dai fallimenti. Se invece evitiamo il dolore, se evitiamo lo stress, il caos, le tragedie e il disordine, ci infragiliamo. La nostra tolleranza agli intoppi quotidiani cala, e di conseguenza la nostra vita dovrà limitarsi per affrontare solo il pezzettino di mondo che riusciamo a gestire in quel momento. Perché il dolore è la costante universale. A prescindere da quanto la tua vita vada “bene” o “male”, il dolore ci sarà sempre. E alla fine diventerà gestibile. Allora la domanda, l’unica da porsi, è: lo vuoi affrontare? Vuoi affrontare il dolore o evitarlo? Vuoi scegliere la fragilità o l’antifragilità?

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Il fulcro della meditazione è praticare l’antifragilità: allenare la propria mente a osservare e a reggere l’incessante andirivieni del dolore per evitare che i suoi strascichi inghiottano l’ego.

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Di solito io mi arrendo dopo un’oretta, ma una volta durante un ritiro ho stabilito il record di due giorni di silenzio. Alla fine la mia mente mi urlava di uscire e andare a giocare. La contemplazione prolungata è un’esperienza strana: un misto di noia mortale punteggiata dalla tremenda constatazione che qualsiasi controllo pensavi di avere sulla tua mente era soltanto un’utile illusione. Aggiungici una manciata di emozioni e ricordi sgradevoli (magari uno o due traumi infantili) e la situazione può farsi pesante. Ora immagina di farlo ogni giorno, dalla mattina alla sera, per sessant’anni. Immagina la concentrazione ferrea e l’incrollabile determinazione della torcia interiore che avresti. Immagina che soglia del dolore avresti. Immagina quanto saresti antifragile.

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I valori infantili sono fragili. Appena finisce il gelato parte la crisi esistenziale, seguita da pianti a dirotto. I valori adolescenziali sono più solidi perché contemplano la necessità del dolore, ma sono ancora sensibili a eventi imprevisti e/o drammatici. In circostanze estreme o nel lungo periodo sono destinati a crollare. I veri valori adulti sono antifragili: traggono vantaggio dagli imprevisti.

[...]

Abbiamo bisogno che la nostra vita abbia un senso, e per quanto gli sconvolgenti passi avanti nella tecnologia abbiano complicato questa ricerca di senso, l’innovazione più importante arriverà il giorno in cui saremo capaci di trovarlo senza lotte o scontri, di capire quant’è importante una cosa senza dover morire.

E allora, magari un giorno ci integreremo addirittura alle macchine. La nostra coscienza individuale verrà inglobata. Le nostre speranze indipendenti svaniranno. Ci incontreremo e fonderemo nel cloud, e le nostre anime digitali vorticheranno e turbineranno nelle tempeste di dati, un’armonica schiera di bit e funzioni disposta in un grandioso allineamento invisibile.

Allora ci saremo evoluti in una grande entità inconoscibile. Trascenderemo i limiti della nostra mente carica di valori.

Vivremo al di là di mezzi e fini, perché saremmo sempre entrambi, un tutt’uno. Avremo attraversato il ponte evolutivo che conduce a qualcosa di superiore e non saremo più umani.

Forse allora non solo comprenderemo ma finalmente abbracceremo la Scomoda Verità: abbiamo vagheggiato di essere importanti, ci siamo immaginati uno scopo, ma in realtà eravamo e siamo ancora insignificanti.

Siamo da sempre insignificanti. E forse allora, soltanto allora, l’eterno ciclo di speranza e distruzione avrà fine.

O forse no…?





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