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THE CHINA STUDY – CAP. 2 – UNA STORIA DI PROTEINE

Tutta la mia carriera professionale nella ricerca biomedica è stata incentrata sulleproteine. Come un guinzaglio invisibile, le proteine mi hanno tenuto legato ovunquemi rivolgessi, dal laboratorio per le ricerche di base ai programmi pratici per l’alimentazione dei bambini malnutriti nelle Filippine, alle sale riunioni governative incui veniva formulata la politica sanitaria nazionale. Le proteine, spesso consideratecon un timore reverenziale insuperato, sono il filo comune che tiene insieme la conoscenza passata e presente in fatto di alimentazione.La storia delle proteine è composta in parte di scienza, in parte di cultura e per unabuona dose di mitologia. Mi tornano in mente le parole di Goethe, portate per la prima volta alla mia attenzione dal mio amico Howard Lyman, insigne conferenziere, autore edex mandriano: «Qual è la cosa più difficile? Quella che ritieni la più facile: vedere con gliocchi quel che ti sta davanti agli occhi». Nulla è stato occultato così bene come la storiamai raccontata delle proteine. Il dogma che circonda le proteine censura, biasima e guida,direttamente o indirettamente, quasi ogni nostro pensiero nella ricerca biomedica.Fin dalla sua scoperta nel 1839 ad opera del chimico olandese Gerhard Mulder,questo composto chimico contenente azoto si è profilato come la più sacra fra tutte le sostanze nutritive. La parola proteina deriva dal greco  proteios  , che significa“di primaria importanza”.Nel XIX secolo, proteina era sinonimo di carne, e questa associazione ci ha accompagnati per più di cent’anni. Ancor oggi molte persone equiparano le proteine ai cibi di origineanimale. Se vi chiedessi di dire il primo alimento che vi viene in mente quando dico “proteine”, probabilmente rispondereste “manzo”. Se è così, sappiate di non essere i soli.Nella maggior parte delle domande basilari sulle proteine regna la confusione: • Quali sono le buone fonti di proteine? • Quante proteine sarebbe opportuno consumare? • Le proteine vegetali sono buone come quelle animali? • E’ necessario combinare certi alimenti vegetali in un pasto per ottenere proteine complete? • E’ consigliabile assumere polveri proteiche o integratori a base di amminoacidi,soprattutto se si fa attività fisica intensa o si pratica uno sport?

Bisognerebbe prendere integratori proteici per modellare la muscolatura?• Alcune proteine sono considerate di alta qualità, altre di bassa qualità: che cosa vuol dire? Da dove prendono le proteine i vegetariani?I bambini vegetariani possono crescere bene senza le proteine animali? Alla base di molte di queste domande e preoccupazioni comuni c’è la convinzione che carne e proteine siano la stessa cosa. Tale convinzione deriva dal fatto che leproteine sono “l’essenza” dei cibi di origine animale. Possiamo rimuovere in manieraselettiva il grasso da molti derivati della carne e latticini, ma questi prodotti restanocomunque riconoscibili come tali. E’ una cosa che facciamo in continuazione, con itagli magri di carne e con il latte scremato. Ma se rimuoviamo in modo selettivo leproteine da un cibo animale, non ci resta nulla di simile all’originale. Una bisteccapriva di proteine, per esempio, sarebbe una poltiglia d’acqua e grasso con una piccolaparte di vitamine e minerali. Chi la mangerebbe? In poche parole, per essere riconosciuto come alimento di origine animale, un cibo deve essere fornito di proteine, chesono l’elemento essenziale dei cibi animali.Scienziati del passato come Carl Voit (1831-1908), eminente studioso tedesco, sonostati strenui paladini delle proteine. Voit aveva scoperto che “all’uomo” ne bastano 48,5grammi al giorno, tuttavia ne raccomandava una dose quotidiana di ben 118 grammi acausa dei pregiudizi culturali dell’epoca. Le proteine venivano equiparate alla carne,e tutti ambivano a mettere in tavola quel cibo, come noi aspiriamo a possedere casepiù grandi e automobili più veloci. Voit pensava che una cosa buona non possa maiessere troppa.Questo scienziato fece da mentore a diversi rinomati ricercatori nel campodell’alimentazione dei primi del Novecento, fra cui Max Rubner (1854-1932) e W.O. Atwater (1844-1907). Entrambi gli studenti seguirono scrupolosamente iconsigli del loro docente. Rubner dichiarò che il consumo di proteine, ossia di carne,era un simbolo di civiltà: «l’uomo civilizzato ha diritto a un abbondante razione diproteine». Atwater proseguì organizzando il primo laboratorio di nutrizione presso il Dipartimento di agricoltura degli Stati Uniti (USDA). In qualità di direttoredell’USDA, raccomandava l’assunzione di 125 grammi al giorno (oggi se ne consigliano solo circa 55). Vedremo in seguito quale importanza abbia avuto quel precedente per questa agenzia governativa.Un pregiudizio culturale si era saldamente affermato: chi era civilizzato mangiava proteine in abbondanza, chi era ricco mangiava carne e chi era povero si cibava prevalentemente di alimenti di origine vegetale, quali il pane e le patate. Alcuni ritenevano chel’indolenza e l’inettitudine delle classi inferiori dipendessero dal fatto che non mangia vano carne o proteine a sufficienza. Nel XIX secolo, il fiorente settore dell’alimentazione vedeva prevalere l’elitarismo e l’arroganza. L’idea che ciò che è più grande fosse migliore,più civilizzato e forse pure più spirituale permeava ogni pensiero relativo alle proteine.E’ al maggiore McCay, illustre medico inglese dei primi del Novecento, che dobbiamo uno dei momenti più spassosi, ma anche più deplorevoli, di questa storia. Nel1912, questo medico era di stanza nella colonia britannica dell’india con il compitodi individuare buoni combattenti fra gli uomini delle tribù di quel paese. Fra altrecose, McCay disse che i soggetti che consumavano meno proteine erano dotati di«un fìsico debole, e il massimo che ci si poteva aspettare da loro era un’inclinazioneeffeminata al servilismo» 2.1. Richiesta di qualità In pratica proteine, grassi, carboidrati e alcol forniscono tutte le calorie che consumiamo. Come macronutrienti, i grassi, i carboidrati e le proteine rappresentano il pesoquasi totale del cibo, ad eccezione dell’acqua, con la piccola quantità rimanente costituitadalle vitamine e dai sali minerali, i micronutrienti. La dose di micronutrienti necessariaper una salute ottimale è minima (nell’ordine di milligrammi o microgrammi).Le proteine, le sostanze nutritive più sacre, sono una componente vitale del nostrocorpo e ne esistono centinaia di migliaia di tipi diversi. Fungono da enzimi, ormoni,tessuto strutturale e molecole di trasporto, tutti elementi che rendono possibile la vita. Le proteine sono costituite da centinaia o migliaia di amminoacidi che formanolunghe catene; vi sono da quindici a venti tipi diversi di amminoacidi, a seconda dicome vengono contati.Le proteine si degradano regolarmente e devono essere sostituite. Questo avvienegrazie al consumo di cibi a contenuto proteico. Una volta digerite, queste proteineci procurano una nuova scorta di elementi costitutivi sotto forma di amminoacidi,destinati a sostituire le proteine deteriorate. Varie proteine animali sono definite diqualità diversa a seconda della loro capacità di fornire gli aminoacidi necessari persostituire le proteine nel nostro organismo.Questo processo di disassemblaggio e riassemblaggio degli amminoacidi in proteine è paragonabile all’azione di una persona che ci consegni un filo di perline multicolori in sostituzione del vecchio filo che abbiamo perso. Tuttavia le perline colorate del nuovo filo non sono nel medesimo ordine di quelle del filo che abbiamoperduto, perciò spezziamo il filo e ne raccogliamo le perline, formando un nuovo filoin cui esse sono disposte nello stesso ordine di quelle che le hanno precedute. Mase per esempio siamo a corto di perline blu, la realizzazione del nuovo filo risulteràrallentata o dovrà essere bloccata finché non ci saremo procurati altre perline di quelcolore. E’ il medesimo concetto alla base della creazione di nuove proteine tissutaliche combaciano con le nostre vecchie proteine deteriorate.Con il cibo che mangiamo dobbiamo procurarci circa otto amminoacidi (“perline colorate”) necessari per la formazione delle nostre proteine tissutali. Questi amminoacidisono detti “essenziali” perché il nostro corpo non è in grado di produrli. Se, come nelcaso del filo di perline, le nostre proteine alimentari presentano una carenza di ancheuno solo di questi otto amminoacidi “essenziali”, la sintesi di nuove proteine subisce unrallentamento o un arresto. E’ a questo punto che entra in gioco il concetto di qualitàdelle proteine. Molto semplicemente, le proteine alimentari di qualità più elevata sono quelle che, dopo la digestione, forniscono i tipi e le quantità giuste di amminoacidinecessari per sintetizzare efficacemente le nostre nuove proteine tissutali. Questo è l’effettivo significato del termine “qualità”: la capacità delle proteine alimentari di fornire igiusti tipi e le giuste quantità di aminoacidi per costruire nuove proteine.Riuscite a immaginare quale cibo potremmo mangiare per procurarci nel modo piùefficace gli elementi costitutivi per le proteine sostitutive? La risposta è la carne uma na, le cui proteine hanno proprio la giusta quantità di amminoacidi di cui abbiamobisogno. Ma dato che non possiamo servire in tavola i nostri simili, otteniamo le proteine dalla seconda fonte migliore, gli ammali. Le proteine degli altri animali sonomolto affini alle nostre perché nella maggior parte dei casi presentano la giusta quantità di ciascuno degli amminoacidi necessari. Queste proteine possono essere utilizzate con grande efficacia e pertanto vengono definite “di alta qualità”. Fra gli alimentidi origine animale, le proteine del latte e delle uova rappresentano le migliori copiepossibili degli amminoacidi delle nostre proteine, e sono quindi considerate di qualitàsuperiore. Se è vero che le proteine vegetali “di bassa qualità” possono essere carenti diuno o più amminoacidi essenziali, tuttavia esse come gruppo li contengono tutti.In realtà il concetto di qualità sta a indicare l’efficacia con cui le proteine alimentari vengono usate per favorire la crescita. Questa sarebbe un’ottima cosa se la massima efficacia corrispondesse alla massima salute, ma così non è, ed è per questo chei termini efficacia e qualità sono fuorvianti. Di fatto, per darvi un assaggio di quello che verrà dopo, esiste un’infinità di ricerche convincenti che dimostrano come leproteine vegetali “di bassa qualità”, che consentono una sintesi lenta ma costante dinuove proteine, siano le più sane. Chi va piano va sano e va lontano. La qualità delleproteine che si trovano in un alimento specifico viene determinata mediante l’osservazione della velocità a cui crescono gli animali che le consumano. Alcuni cibi, eprecisamente quelli di origine animale, risultano possedere un rapporto e un valoredi efficienza proteica molto elevati 1 .Questa concentrazione dell’attenzione sull’efficacia della crescita corporea, intesa come indice di buona salute, incoraggia il consumo di proteine della “qualità”più elevata. Come vi direbbe qualsiasi venditore, un prodotto definito di alta qualitàconquista immediatamente la fiducia dei consumatori. Per ben più di cent’anni siamo stati prigionieri di questo linguaggio ambiguo e molte volte siamo purtroppostati indotti a credere che più qualità e più salute fossero sinonimi.La base di questa idea di qualità proteica non era ben nota fra il pubblico, ma ilsuo impatto è stato, ed è tuttora, altamente significativo. Ad esempio, le persone chescelgono di seguire una dieta vegetariana chiedono spesso, anche al giorno d’oggi:«Da dove ottengo le proteine?», come se i vegetali ne fossero privi. Nonostante sisappia che i vegetali hanno le proteine, ci si preoccupa ancora della loro qualità, percepita come bassa. Questo ha portato la gente a credere di dover combinare scrupolosamente le proteine ricavate da diversi vegetali all’interno di ogni pasto, così cheesse possano compensare reciprocamente i rispettivi deficit in termini di amminoacidi. Ma si tratta comunque di un’esagerazione.Ora sappiamo che, attraverso sistemi metabolici estremamente complessi, l’organismo umano può ricavare tutti gli amminoacidi essenziali dalla naturale varietà di proteine vegetali che troviamo ogni giorno. Non occorre mangiare maggiori quantità di proteine vegetali o pianificare meticolosamente ogni singolo pasto.Purtroppo il perdurare del concetto della qualità delle proteine ha ampiamenteoscurato queste informazioni 2.2. Il gap proteico La questione più importante nell’ambito dell’alimentazione e dell’agricoltura durante la fase iniziale della mia carriera riguardava la scoperta di sistemi atti ad aumentare il consumo di proteine, assicurandosi che queste fossero della miglior qualità possibile. I miei colleghi ed io credevamo in questo obiettivo comune. Dalla miainfanzia alla fattoria fino alla specializzazione, ho accettato questa vera e propria venerazione nei confronti delle proteine. Ricordo che quand’ero un ragazzo la partepiù costosa del nutrimento degli animali della fattoria era costituita dagli integratoriproteici che davamo alle nostre mucche e ai nostri maiali. Poi, durante i tre anni(1958-1961) di dottorato di ricerca avevo lavorato con l’obiettivo di migliorare l’approvvigionamento di prpecore, di modo che si potessero mangiare maggiori quantità della loro carne 2,3 .Per tutti gli anni del dottorato di ricerca, sono stato profondamente convinto che lapromozione del consumo di proteine di alta qualità, come quelle contenute nei cibi diorigine animale, fosse un compito di grande importanza. Il mio dottorato di ricerca,nonostante sia stato citato alcune volte nel corso del decennio successivo, era solo unapiccola parte dei tentativi molto più grandi compiuti da altri gruppi di ricerca per affrontare la questione delle proteine su scala mondiale. Nel corso degli anni Sessanta eSettanta, non si parlava d’altro che di un “gap proteico” nei paesi in via di sviluppo 4 .Il gap proteico sanciva il fatto che la fame nel mondo e la malnutrizione infantile nelterzo mondo dipendessero dalla quantità insufficiente di proteine, in particolar modo diquelle di alta qualità, ovvero quelle animali 1,4 ’ 5 . In base a questo punto di vista, gli abitanti del terzo mondo erano particolarmente carenti di proteine di “alta qualità” o animali.Dappertutto spuntavano progetti per affrontare questo “gap proteico”.Nel 1976 un illustre professore del MIT e il suo collega più giovane erano giunti allaconclusione che «un adeguato apporto di proteine è un aspetto fondamentale del problemaalimentare mondiale» 5 e che «se non… auspicabilmente [integrate] con modeste quantitàdi latte, uova, carne o pesce, le diete prevalentemente a base di cereali [delle nazioni povere]sono… carenti di proteine per i bambini in fase di crescita…». Per affrontare questo pressante problema • il MIT era impegnato a sviluppare un integratore alimentare ricco di proteinechiamato INCAPARINA; • la Purdue University coltivava un mais con una maggiore percentuale di lisina,l’amminoacido “mancante” nelle proteine del granturco; • il governo degli Stati Uniti finanziava la produzione di latte in polvere per fornireproteine di alta qualità ai poveri del mondo; • la Cornell University inviava una profusione di talenti nelle Filippine allo scopodi contribuire allo sviluppo di una varietà di riso ad alto contenuto proteico e diun’industria dell’allevamento; • l’Auburn University e il MIT trituravano il pesce per produrre un “concentrato diproteine del pesce” con cui nutrire i poveri del mondo Le Nazioni Unite, il programma “Cibo per la pace” del governo degli USA, leprincipali università e innumerevoli altre organizzazioni e atenei avevano adottato ilmotto che proponeva di debellare la fame nel mondo con le proteine di alta qualità.Conoscevo direttamente la maggior parte dei progetti, come pure i singoli individuiche li avevano organizzati e li dirigevano. Tramite i suoi programmi di sviluppo dell’agricoltura, l’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura delle Nazioni Unite (FAO) esercita una notevole influenza sui paesi in via di sviluppo. Nel 1970 due suoi membri 6 avevano dichiaratoche «… nel complesso la deficienza di proteine è senza dubbio la carenza più gravenell’alimentazione dei paesi in via di sviluppo. La gran massa della popolazione diquesti paesi si nutre in prevalenza di cibi di origine vegetale, spesso poveri di proteine. Ne conseguono una cattiva salute e una bassa produttività per persona occupata». M. Autret, un membro molto influente della FAO, aveva aggiunto che «a causadel basso contenuto di proteine animali nella dieta e della mancanza di varietà negliapprovvigionamenti [nei paesi in via di sviluppo], la qualità delle proteine è insoddisfacente» 4 . Aveva relazionato sull’associazione molto stretta fra consumo di cibi diorigine animale e reddito annuo. Autret si era dichiarato assolutamente a favore dìun aumento della produzione e del consumo di proteine animali al fine di far fronteal crescente “gap proteico” nel mondo. Aveva inoltre caldeggiato che «tutte le risorsescientifiche e tecnologiche dovessero essere mobilitate per creare nuovi cibi ricchi diproteine o per trarre i massimi vantaggi dalle risorse finora utilizzate in modo insufficiente per nutrire l’umanità» 4 .Nel 1973, Bruce Stillings deU’Università del Maryland e del Dipartimento delcommercio degli Stati Uniti, un altro fautore del consumo di cibi di origine animale,ammetteva che «sebbene di per sé  la dieta non richieda proteine animali, la quantitàdi proteine dietetiche provenienti da fonti animali è di solito ritenuta indicativa della qualità proteica generale della dieta» 1 . E proseguiva dicendo che «… l’apporto diadeguate quantità di prodotti animali è in genere riconosciuto come un modo idealeper incrementare il consumo di proteine nel mondo».Ovviamente è giusto dire che un apporto di proteine può essere un modo importanteper migliorare l’alimentazione nel terzo mondo, in particolare se le popolazioni ottengono tutte le loro calorie da un’unica fonte vegetale. Ma questo non è l’unico modo e, come vedremo, non è neppure quello più compatibile con la salute a lungo termine. 2.3. Nutrire i bambini Questo era dunque il clima che regnava a quei tempi, e io ne facevo parte comechiunque altro. Nel 1965 lasciai il MIT per assumere un incarico al Virginia Tech.Il professor Charlie Engel, che all’epoca era capo del Dipartimento di biochimicae nutrizione al Virginia Tech, era particolarmente interessato a sviluppare un programma internazionale di alimentazione per bambini malnutriti. Gli premeva rea lizzare un progetto di autoaiuto rivolto alle madri nelle Filippine. Si trattava di unprogetto di puericultura incentrato sull’educazione delle madri di bambini malnutriti. L’idea era che se alle madri fosse stato insegnato che le varietà giuste di cibilocali potevano far star bene i loro figli, non avrebbero più avuto bisogno di fare affidamento sugli scarsi medicinali e sui medici perlopiù inesistenti. Engel diede avvioal programma nel 1967 e mi invitò a fare da coordinatore del campus e a compieresoggiorni prolungati nelle Filippine, mentre lui risiedeva a tempo pieno a Manila.In accordo con l’enfasi posta sulle proteine come mezzo per risolvere la malnutrizione, dovevamo far sì che queste sostanze nutritive diventassero il fulcro dei nostri centri di formazione in puericultura, aiutando così a incrementare il consumo diproteine. Il pesce come fonte di proteine era perlopiù limitato alle aree costiere e lanostra tendenza consisteva nello sviluppare le arachidi come fonte di proteine perché crescevano facilmente un po’dappertutto. L’arachide è un legume, come l’alfalfa,la soia, il trifoglio, i piselli e altri fagioli. Come questi altri fissatori di azoto, anche learachidi sono ricche di proteine.C’era però un problema fastidioso con questi gustosi legumi. Erano emerse proveevidenti, prima dall’Inghilterra 7 ‘ 9 e poi dal MIT (dal laboratorio in cui avevo lavorato) 10,11 da cui risultava che spesso le arachidi erano contaminate con una tossina prodotta da un fùngo chiamata aflatossina (AF). Era un problema allarmante, perchéera stato dimostrato che l’AF causava il cancro al fegato nei ratti. Si diceva che fosseil più potente carcinogeno chimico mai scoperto.Dovevamo quindi occuparci di due progetti strettamente correlati: ridurre la mal-nutrizione infantile e risolvere il problema della contaminazione da AF.Prima di recarmi nelle Filippine ero andato ad Haiti per osservare alcuni centri sperimentali di puericultura organizzati dai professori Ken King e Ryland Webb,miei colleghi al Virginia Tech. Era il mio primo viaggio in un paese sottosviluppato, e Haiti era sicuramente il posto adatto. Papa Doc Duvalier, il presidente diHaiti, spremeva le scarse risorse del paese per mantenere il suo ricco stile di vita. Aquell’epoca il 54% dei bambini haitiani moriva prima di compiere i cinque anni, inprevalenza a causa della malnutrizione.In seguito andai nelle Filippine, dove in pratica trovai la stessa situazione.Stabilimmo l’ubicazione dei centri di puericultura basandoci sulle percentuali dimalnutrizione in ciascun villaggio e concentrammo i nostri sforzi sui villaggi maggiormente in difficoltà. Nel corso di un’indagine preliminare condotta in ogni villaggio {barrio) i bambini venivano pesati e, in base all’età, il loro peso veniva confrontato con uno standard di riferimento occidentale, suddiviso in malnutrizione di primo,secondo e terzo grado. Il terzo, che costituiva il grado peggiore di malnutrizione,raggruppava i bambini al di sotto del 65° percentile. Va ricordato che un bambino al100° percentile rappresenta solo la media per gli USA. Essere al di sotto del 65° percentile significa stare per morire di fame.Nelle aree urbane di alcune grandi città, si è stimato che il 15-20% dei bambinidi età compresa fra i tre e i sei anni rientrasse nel terzo grado. Riesco a ricordare molto bene alcune delle prime osservazioni che ho condotto su quei bambini. Unamadre, pure lei poco più di uno scricciolo, che teneva in braccio i suoi due gemellidi tre anni dagli occhi sporgenti, uno di 5 kg e l’altro di 6,4 kg, cercando di indurliad aprire la bocca per mangiare un po’ di pappa d’avena. Bambini più grandi, ciechi per via della malnutrizione, venivano portati in giro dai fratellini più piccoli achiedere l’elemosina. Bambini senza gambe o senza braccia che speravano di ottenere un pezzetto di cibo. 2.4. Una rivelazione per cui morire È inutile dire che quegli spettacoli ci motivarono fortemente a portare avanti ilnostro progetto. Come ho già detto, per prima cosa dovevamo risolvere il problemadella contaminazione da AF nelle arachidi, il nostro alimento proteico preferito.Il primo passo nello studio dell’AF consistette nel raccogliere alcune informazionibasilari. Nelle Filippine chi consumava AF e chi era soggetto al cancro al fegato? Perrispondere a queste domande, feci richiesta e ottenni dagli Istituti nazionali di sanità(NIH) un’assegnazione di fondi per la ricerca. Adottammo anche una seconda strategia ponendoci un’altra domanda: in che modo l’AF influisce sul cancro al fegato? Volevamo analizzare la questione a livello molecolare servendoci di ratti da laboratorio. Riuscii ad ottenere una seconda assegnazione di fondi dai NIH per questa ricerca biochimica approfondita. Quelle due sovvenzioni diedero inizio a un’indaginesu due piste, una fondamentale e una applicata, che avrei continuato per il resto dellamia carriera. Trovavo gratificante analizzare le questioni sia dalla prospettiva fonda-mentale che da quella applicata, perché questo metodo ci rivela non solo l’impattodi un alimento o di una sostanza chimica sulla salute, ma anche il motivo per cuiesercita quell’impatto. Così facendo possiamo comprendere meglio non solo il fondamento biochimico del cibo e della salute, ma anche come questo può essere messoin relazione alle persone nella vita quotidiana.Cominciammo con una serie di indagini a stadi successivi. Prima di tutto vole vamo sapere quali cibi contenevano la maggior quantità di AF. Avevamo appresoche le arachidi e il mais erano quelli più contaminati. Per esempio, tutti e ventinovei barattoli di burro di arachidi che avevamo acquistato nelle drogherie locali eranocontaminati, con livelli di AF pari a trecento volte la quantità ritenuta accettabile neicibi americani. Le arachidi intere erano molto meno contaminate: nessuna di essesuperava le quantità di AF ammesse nei prodotti agricoli americani. Questa disparità fra burro di arachidi e arachidi intere aveva origine in fabbrica, dove le arachidimigliori, che andavano a riempire barattoli di noccioline “da cocktail”, erano selezionate a mano, mentre sul nastro trasportatore in movimento rimanevano le peggiori epiù ammuffite, destinate ad essere trasformate in burro di arachidi.La nostra seconda domanda riguardava chi fossero i soggetti più esposti alla contaminazione da AF e ai suoi effetti cancerogeni. Scoprimmo che erano i bambini, quelli  che consumavano il burro di arachidi addizionato di AF. Valutammo il consumo di AF analizzando l’escrezione di prodotti metabolici contenenti AF nelle urine di bambini che vivevano in case in cui c’era un barattolo di burro di arachidi parzialmenteconsumato 12 . Mentre raccoglievamo queste informazioni, emerse un modello interessante: le due aree del paese con i più alti tassi di cancro al fegato, le città di Manilae Cebu, erano anche le stesse zone in cui si verificava il massimo consumo di AF. Ilburro di arachidi veniva consumato quasi esclusivamente nell’area di Manila, mentre ilmais veniva consumato a Cebu, la seconda città più popolata delle Filippine.Ma, come si scoprì in seguito, la storia era più complessa. Le nuove informazioniemersero dal mio incontro con un illustre medico, il dottor José Caedo, che era unconsulente del presidente Marcos. Il dott. Caedo mi disse che il problema del cancroal fegato nelle Filippine era piuttosto serio. L’aspetto davvero devastante era che lamalattia mieteva vittime fra i bambini che non avevano ancora compiuto i dieci anni. Mentre in Occidente questa patologia colpisce in prevalenza i soggetti che hannosuperato i quarantanni, Caedo mi riferì di aver operato di persona bambini di etàinferiore ai quattro anni per un tumore al fegato!Già questo era incredibile, ma quello che mi disse dopo fu ancora più impressionante. In pratica, i bambini che si ammalavano di tumore al fegato appartenevano alle     famiglie meglio nutrite!  Le famiglie più facoltose seguivano quella che consideravamola dieta più sana, ovvero la dieta che più si avvicinava a quella americana, ricca dicarne. Consumavano più proteine di chiunque altro in quel paese (e per giunta proteine    animali di alta qualità), eppure erano loro ad ammalarsi di cancro!  Com’era possibile? Su scala mondiale, le percentuali di cancro al fegato eranopiù elevate nei paesi con la più bassa assunzione media di proteine. Era perciòampiamente diffusa la convinzione che questo cancro derivasse da una carenza diproteine e per di più il problema della carenza era il motivo principale per cui sta vamo lavorando nelle Filippine: il nostro scopo consisteva appunto nell’aumentareil consumo di proteine nel maggior numero possibile di bambini malnutriti. Maora il dott. Caedo e i suoi colleghi mi dicevano che i bambini che seguivano lediete più ricche di proteine presentavano le più alte percentuali di cancro al fegato.Dapprima mi sembrò strano, ma con l’andar del tempo le informazioni che raccolsi confermarono le loro osservazioni. All’epoca, in una sconosciuta rivista medica 13 comparve una pubblicazione accademica proveniente dall’india. Si trattava di un esperimento che prendeva in esame ilcancro al fegato e il consumo di proteine in due gruppi di ratti da laboratorio. A ungruppo erano state somministrate l’AF e poi una dieta che conteneva il 20% di proteine. Al secondo gruppo era stato dato lo stesso livello di AF e poi era stato nutrito conuna dieta composta solo dal 5% di proteine. Ogni singolo ratto nutrito con il 20% diproteine si era ammalato di cancro al fegato o aveva evidenziato le lesioni che lo precedono, ma neppure un animale del gruppo nutrito con una dieta composta per il 5%di proteine aveva contratto il cancro o evidenziato le lesioni che lo precedono. Non erauna differenza da nulla: era il 100% contro lo 0%. Questo risultato corrispondeva moltissimo alle mie considerazioni riguardo ai bambini filippini: i più vulnerabili al tumore epatico erano quelli che seguivano diete con le più elevate percentuali di proteine.Nessuno sembrava accettare quel rapporto proveniente dall’India. Su un volo partitoda Detroit, al ritorno da una presentazione a un convegno, viaggiai con un mio ex collega molto più anziano del MIT, il professor Paul Newberne. A quei tempi era uno deipochi ad essersi occupato approfonditamente del ruolo dell’alimentazione nello sviluppo del cancro. Gli riferii le mie impressioni ricavate dal lavoro nelle Filippine e gli parlai della pubblicazione indiana, che lui liquidò sommariamente dicendo: «Devono averinvertito i numeri sulle gabbie degli animali. Una dieta ad elevato contenuto proteiconon potrebbe in nessun modo favorire lo sviluppo del cancro».Mi resi conto di essermi imbattuto in un’idea provocatoria che suscitava l’incredulità, se non addirittura l’ira dei colleghi. Dovevo prendere sul serio l’osservazione inbase alla quale le proteine aumentavano lo sviluppo del cancro e correre il rischio diessere ritenuto pazzo? O forse era opportuno voltare le spalle a quella storia?In qualche modo sembrava che alcuni eventi della mia vita privata avessero fattoda preludio a quel momento nella mia carriera. Quando avevo cinque anni, una ziache viveva con noi stava morendo di cancro. In diverse occasioni mio zio portò mee mio fratello a trovare sua moglie in ospedale. Nonostante fossi troppo piccolo percapire tutto quello che stava accadendo, ricordo di essere rimasto colpito da quellagrande parola che cominciava per “C”: cancro. Ero solito pensare che da grande avreitrovato una cura per quella malattia.Successivamente, pochi anni dopo essermi sposato e più o meno all’epoca in cuistavo cominciando il lavoro nelle Filippine, la madre di mia moglie morì di cancroal colon a soli cinquantun anni. In quella fase iniziale della nostra ricerca stavoprendendo coscienza di una possibile relazione fra dieta e cancro. Il caso di miasuocera fu particolarmente difficile perché, non avendo un’assicurazione sanitaria,non potè ricevere un’adeguata assistenza medica. Mia moglie Karen era la sua unica figlia e le due donne erano legate da un rapporto intenso. Quelle diffìcili esperienze mi facilitarono la scelta della carriera: sarei andato ovunque la nostra ricercami avesse portato per contribuire all’acquisizione di una migliore comprensione diquella terribile malattia.Ripensandoci, fu allora che la mia carriera cominciò a focalizzarsi sulla dieta e sulcancro. Il momento in cui decisi di fare ricerche sulle proteine e su questa malattiafu il punto di svolta. Se volevo continuare a seguire quella storia, la soluzione erauna sola: cominciare a svolgere ricerche di laboratorio fondamentali per scoprire nonsolo se, ma anche come il consumo di una maggior quantità di proteine aumenti leprobabilità di ammalarsi di cancro. Ed è esattamente quello che ho fatto e che mi haportato molto più lontano di quanto avrei mai immaginato. Già solo le straordinariescoperte prodotte dai miei colleghi, dai miei studenti e da me potrebbero indurvi amettere seriamente in discussione la vostra dieta attuale. Ma, ancora più importante,le scoperte hanno fatto sorgere domande più ampie che avrebbero finito per minarele fondamenta stesse dell’alimentazione e della salute. 2.5 La natura della scienza:cosa vi occorre sapere per seguire la ricerca Nella scienza le prove sono sfuggenti. Più ancora che nelle scienze “fondamentali”come la biologia, la chimica e la fisica, stabilire una prova assoluta nel campo della medicina e della salute è pressoché impossibile. L’obiettivo primario della ricerca consistesoltanto nel determinare che cosa potrebbe essere  probabile. Questo perché la ricerca inambito sanitario è intrinsecamente statistica. Una palla lanciata in aria cadrà? Sì, ogni volta. E’ la fìsica. Se fumate quattro pacchetti di sigarette al giorno vi ammalerete dicancro ai polmoni? La risposta è: forse. Sappiamo che le vostre probabilità di ammalarvi di cancro al polmone sono di gran lunga superiori a quelle che avreste se non foste fumatori, e possiamo dirvi quali sono queste probabilità (statistiche), ma non siamoin grado di dirvi con certezza se proprio voi vi ammalerete di questa patologia.Nella ricerca sull’alimentazione, venire a capo degli intricati rapporti fra dieta e salutenon è così facile. Gli esseri umani vivono in modi estremamente diversi, hanno retroterragenetici diversi e mangiano ogni sorta di cibi diversi. Le limitazioni poste agli esperimenti, come per esempio i vincoli di costi e di tempo e gli errori di misurazione, sonoostacoli significativi. Ma la cosa forse più importante è che cibo, stile di vita e salute interagiscono attraverso sistemi talmente sfaccettati e complessi che stabilire una prova perun qualsiasi fattore e una qualsiasi malattia è quasi impossibile, anche se si disponesse diun insieme perfetto di soggetti, di tempo illimitato e di risorse finanziarie senza limiti. A causa di queste difficoltà facciamo ricerca utilizzando molte strategie diverse. Inalcuni casi valutiamo se una causa ipotetica produce un ipotetico effetto osservando  e misurando le differenze già esistenti fra diversi gruppi di persone. Potremmo os servare  e confrontare società che consumano diverse quantità di grassi, poi osservare   se queste differenze corrispondono a differenze simili nelle percentuali di cancro alseno o osteoporosi o a qualche altra condizione patologica. Potremmo osservare  econfrontare le caratteristiche alimentari di persone già malate con un gruppo paragonabile di individui non malati. Potremmo osservare  e paragonare le percentuali dimalattia nel 1950 con quelle nel 1990, e poi osservare  se eventuali cambiamenti negliindici di malattia corrispondono a cambiamenti nella dieta.Oltre a osservare  ciò che già esiste, potremmo fare un esperimento e intervenire   intenzionalmente con una cura ipotetica per vedere che cosa succede. Ad esempio,interveniamo quando effettuiamo dei test sull’efficacia e la sicurezza dei farmaci. Aun gruppo di persone viene somministrato il farmaco e al secondo gruppo un pia-cebo (una sostanza inattiva apparentemente simile al medicinale per compiacere ilpaziente). Tuttavia intervenire  con una dieta è molto più difficile, soprattutto se lepersone non sono confinate in un ambiente clinico, perché in tal caso dobbiamo fareaffidamento sul fatto che ciascuno segua fedelmente la dieta specifica.Mentre svolgiamo la ricerca osservazionale e la ricerca-intervento, cominciamoad accumulare le scoperte e a vagliare le prove a favore o contro una certa ipotesi.Quando il peso dell’evidenza favorisce un’idea al punto che non la si può più negare in maniera plausibile, avanziamo l’ipotesi che si tratti di una verità probabile. È inquesto modo che porto avanti un’argomentazione a favore di una dieta a base di cibi naturali di origine vegetale. Man mano che procederete nella lettura, vi rendereteconto che chi cerca una prova assoluta dell’alimentazione ottimale in uno o due studiscientifici resterà deluso o confuso. Confido tuttavia che chi è in cerca della verità infatto di dieta e salute sarà sorpreso e illuminato esaminando il peso dell’evidenza chederiva dalla varietà degli studi disponibili. Ci sono parecchie idee da tenere a mentequando si determina il peso della prova, qui di seguito ne vengono presentate alcune

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